Il colbacco in testa e la sigaretta in bocca, la storia di Gustavo Giagnoni, dalla Sardegna a Mantova, passando per Roma, Milan e Torino.
Attratto da un tipo di cappello che non vedevo più da tempo, mi fermo davanti a una vetrina di un negozio d'abbigliamento. Lo fisso sulla testa di un manichino, sì, è proprio lui, un colbacco. Un po' cambiato, modificato, diciamo modernizzato, ma è sempre lui. Accanto a me si affiancano due eleganti signore, una fa all'altra: "Guarda, un colbacco. E' tornato di moda!"
"Sarà la guerra – risponde l'altra - i soldati russi lo usano". Poi scoppiando entrambe in una stupida risata se ne vanno, parlottando e ridacchiando, risparmiandomi così altre amenità.
Io rimango per un po' davanti alla vetrina e ripenso a quanto m'incuriosisse da bambino quel copricapo. Ne ero rimasto attratto guardandolo sulla testa di Gustavo Giagnoni, l'allenatore del Torino a inizio degli anni '70. Lo portava sempre in testa, anche nelle giornate più calde. Una via di mezzo tra un portafortuna o un simbolo. Perché l'allenatore col colbacco era proprio l'emblema della rivolta del calcio operaio contro lo strapotere delle grandi squadre. Il colbacco di Giagnoni era anche una specie di elmetto. Infatti, l'allenatore del Toro era sempre in guerra, grintoso come pochi, uno dei migliori esempi di quel concetto passato alla storia come "tremendismo granata".
Dopo essere stato ammaliato da quello strano cappello fui rapito dall'uomo. Un gran personaggio, anche nei suoi eccessi sportivi che spesso lo portavano a esagerare. Come quando in un derby del 1973 sferrò un pugno in faccio allo juventino Causio. L'ala bianconera, dopo un gol della sua squadra realizzato da Cuccureddu, aveva commesso la sgarbatezza di sfottere Giagnoni. Il tecnico granata si alzò di scatto dalla panchina e, dopo aver chiesto educatamente al guardalinee di spostarsi perché era nel mezzo tra lui e Causio, armò il destro per stendere con un cazzotto l'avversario. Oggi un episodio del genere sarebbe sanzionato con una squalifica lunghissima e censurato con aspre critiche da stampa e programmi televisivi per giorni. Alla fine della partita, invece, i tifosi granata aspettarono il loro allenatore per portarlo in trionfo. Era un altro calcio. Il campo era come un ring o ancor peggio un saloon mal frequentato. Le botte si davano e si prendevano. Non a caso il pugno di Giagnoni arrivò un anno dopo un gancio destro che lo juventino Morini stampò, senza essere sanzionato dall'arbitro, sul volto del granata Rampanti in un derby di fuoco. Visto oggi poteva sembrare un calcio peggiore. Probabilmente era solo diverso.
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Ma Giagnoni non era solo grinta e cazzotti. Giagnoni è stato un grande allenatore e tornando di moda il colbacco è giusto ricordarlo. Sardo di nascita e, soprattutto, nel carattere, mai domo e capace di conquistarsi tutto, partendo dal basso, con le unghie e con i denti, senza sconti e scorciatoie. Dopo qualche anno in seminario a Olbia, la passione per il calcio ebbe la meglio sulla fede, anche se in ogni trasferta, prima da giocatore e successivamente da allenatore, la prima cosa che cercava era una chiesa per seguire la messa. Sempre a Olbia iniziò la sua carriera da calciatore. Qui fu notato dai dirigenti della Reggiana che lo convinsero a traslocare nel continente per cercare fortuna. Non era né vecchio né giovane, ma a 23 anni per un calciatore se passa un treno, probabilmente è l'ultimo. Giagnoni, sapendolo, ci salì e, da quel momento, iniziò un crescendo rossiniano di promozioni: ben quattro in sei anni. Prima alla Reggiana, dalla D alla C, e poi nel Mantova dove divenne uno dei giocatori simbolo della squadra. Quel Mantova era guidato in panchina da Edmondo Fabbri, detto Mondino o più simpaticamente Topolino per la bassa statura, un Sacchi ante litteram. Solo che a differenza del profeta di Fusignano che arrivò in A senza aver vinto nessun campionato minore, Fabbri si conquistò la massima serie a suon di campionati trionfali. Dopo anni brillanti da ala tutto dribbling e col fiuto del gol, con ottime annate all'Inter e alla Sampdoria, Fabbri stava finendo la carriera a Mantova. Appena smesso di giocare, gli fu affidata la panchina della prima squadra. I virgiliani erano in serie D e Topolino dal 1957 al 1961, con tre promozioni in solo quattro anni, li portò in A. Non a caso quel Mantova fu soprannominato il "Piccolo Brasile" per la spettacolarità del suo gioco. Quella squadra fu costruita da un giovane manager alla sua prima esperienza dietro una scrivania, un certo Italo Allodi che pochi anni dopo avrebbe costruito la grande Inter di Angelo Moratti ed Helenio Herrera. Fu proprio Allodi, nella creazione di quel suo primo capolavoro, a convincere Giagnoni a lasciare la Reggiana per salire 90 chilometri a nord e approdare nella città di Virgilio. Fabbri, dopo i fasti mantovani, ebbe come premio, nel 1962, la panchina della Nazionale. Il tecnico conobbe poi la sua Waterloo, che si chiamava Corea, ai Mondiali del 1966 in Inghilterra e da quel trauma non si riprese più.
E Giagnoni? Non mi sono dimenticato di lui. Giagnoni fu il capitano di quel "Piccolo Brasile", l'eroe della scalata dalla D alla A, il giocatore più amato dai tifosi mantovani, un mediano di spinta tutto cuore, polmoni e cervello. Non a caso Fabbri lo considerava il suo alter ego in campo e anni dopo ammise l'errore di non averlo portato ai Mondiali. "Con lui in campo – confessò Topolino – non avremmo mai perso contro la Corea". A onor del vero, Fabbri non portò ai Mondiali neppure Gigi Riva, ma questa è un'altra storia. Il legame con Mantova era così forte che Giagnoni rifiutò sempre altre proposte più remunerative e come premio, una volta arrivato a fine corsa, la dirigenza gli offrì la guida delle giovanili. I lombardi, intanto, dopo il periodo d'oro d'inizio anni '60 erano scesi in B e, quando sembrava quasi sicuro addirittura il ritorno in C, la città chiese a furor di popolo di affidare la panchina a Giagnoni. Al neo mister riuscì un doppio miracolo: prima salvò la squadra dalla C e poi, in due stagioni, la riportò in A. Nella veste di allenatore, però, non poteva resistere alle sirene di grossi club che volevano affidargli la panchina. Sembrava fatta per il suo passaggio alla Juventus, dove nel frattempo era arrivato il suo amico Allodi che ne sponsorizzava l'ingaggio. Ma la dirigenza bianconera, soprattutto Boniperti, lo trovava troppo ruspante e fuori dagli schemi, optando infine per Čestmír Vycpálek, che avrebbe poi condotto la Juventus a vincere due scudetti e a raggiungere la sua prima finale di Coppa dei Campioni.
Ma la città della Mole era nel destino di Giagnoni che approdò al Torino nell'estate del 1971, diventando ben presto il simbolo della rinascita granata che grazie a lui, ventidue anni dopo la tragedia di Superga, tornò a respirare l'aria dell'alta classifica. Il primo campionato col Torino fu straordinario con uno scudetto sfiorato dopo un'appassionate volata con Juventus, Milan e Cagliari, che vide i granata arrivare secondi a pari punti col Milan a un solo punto dai bianconeri. Fu uno dei campionati più discussi di sempre col Torino che si sentì scippato da alcuni arbitraggi discutibili e lo stesso Milan che per bocca di Rivera denunciò pubblicamente come parecchie direzioni di gara fossero solo a favore della Juventus. Il numero 10 rossonero per queste accuse subì una pesante squalifica.
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In quella stagione Giagnoni plasmò e lanciò tanti giovani come Claudio Sala, Pulici e Mozzini che avrebbero formato la spina dorsale del Toro che avrebbe vinto nel 1976 lo scudetto sotto la guida di Gigi Radice.
Il destino di crescere i ragazzi e vedere raccogliere i frutti ad altri colleghi avrebbe poi accompagnato la carriera di Giagnoni. Così fu poi a Roma dove sotto la sua guida esplose definitivamente un giovane Agostino Di Bartolomei. Prima ancora dei giallorossi, Giagnoni allenò il Milan, ma fece l'errore di scontrarsi con Rivera e questo gli costò la panchina, e il Bologna.
Dopo l'esperienza capitolina, Giagnoni girò l'Italia da nord a sud, isole come comprese, come diceva la pubblicità di un mobilificio dell'epoca, toccando sia Sardegna che Sicilia con Cagliari e Palermo. Proprio quando la sua carriera sembrava ormai finita e dopo un periodo d'inattività fu chiamato nel 1990/91 a risollevare le sorti della Cremonese che riportò in serie A. Dopo Cremona non potette resistere al richiamo della città che l'aveva adottato e dove aveva deciso di mettere su casa. Tornò a Mantova nella nuova veste di direttore tecnico, anche in questo ruolo da vincente. Il Mantova era precipitato in serie D e lui, con due promozioni, lo riportò in serie C1.Si trattò della sesta promozione con la maglia biancorossa: tre da giocatore, una da allenatore e due da dirigente, un record. In quest'ultima avventura scelse per la panchina il suo grande amico Ugo Tomeazzi, altra bandiera del Mantova che aveva avuto Giagnoni prima come capitano, poi da allenatore e infine da dirigente. Lo stesso Tomeazzi nel 2018, ricordando commosso il suo capitano pochi giorni dopo la scomparsa, citò una frase che diceva spesso Giagnoniper giustificare la sua irruenza che spesso, vedi episodio del pugno a Causio e lite con Rivera, ne aveva frenato la carriera: "Ho esagerato" due parole alle quali faceva seguire sempre un "forse" accompagnato da un sorriso.
"Ho esagerato…forse". Perché, in fondo, non rinnegava mai le sue idee.
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