Ci ha lasciato Luis Suárez Miramontes, detto Luisito, campione d'Europa con la Spagna e con l'Inter, una carriera tra Deportivo La Coruna, Barcellona e Sampdoria. E' l'unico spagnolo ad aver vinto il Pallone d'Oro
In tutti i capolavori, e le grandi squadre di calcio sono capolavori, c'è sempre un ingranaggio che fa sì che ciò avvenga. Se l'Inter dal 1962 al 1966 vinse tutto il vincibile diventando la "Grande Inter" lo deve principalmente a un uomo: Luisito Suarez. Il presidente Angelo Moratti dopo sei anni dall'acquisto della società meneghina, avvenuto nel 1955, non aveva ancora vinto nulla. Eppure aveva speso valanghe di soldi. Aveva comprato fior di campioni e ingaggiato Italo Allodi, il miglior direttore sportivo sulla piazza. Dopo cinque anni d'insuccessi prese pure uno dei migliori allenatori del mondo: Helenio Herrera. Il presidente si era infatuato di lui quando, nel 1959, alla guida del Barcellona aveva distrutto l'Inter vincendo il doppio confronto sia in casa che fuori nei quarti di finale di Coppa delle Fiere: 4-0 in Spagna e 4 a 2 a San Siro. La scelta fu azzeccatissima. Herrera regalò all'Inter 3 scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali e passò alla storia come il mago. Per i più giovani che ci leggono, era un Mourinho ante litteram. Il paragone non è infondato, non a caso decenni dopo il portoghese sarà soprannominato il mago di Setubal e sotto molti aspetti, soprattutto per il carisma, la capacità di comunicare e l'esaltarsi nelle sfide più difficili, i due sono molto simili.
Ilario Castagner, l'Olanda a Perugia - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo
Herrera capì che per rendere grande l'Inter era necessario prendere a qualsiasi costo un giocatore che conosceva bene che aveva fatto le fortune sue e del Barcellona: Luisito Suarez. Il numero 10 dei blaugrana. Per acquistarlo l'Inter scucì 300.000.000 milioni di lire, una cifra folle per l'epoca. Con quella enorme entrata di cassa, i catalani riuscirono a ripianare i debiti (la storia si ripete sempre) e finire i lavori dello stadio che sarebbe poi diventato l'attuale Camp Nou.
Una volta preso Suarez, Herrera lasciò al suo pupillo la maglia numero dieci ed ebbe la geniale intuizione di arretrare il suo raggio d'azione. Se a Barcellona giocava da trequartista vicino alle punte e vicino alla porta, esaltando le sue capacità realizzative, all'Inter fu spostato davanti alla difesa e gli furono date le chiavi del gioco dei nerazzurri. "Quando non sapete a chi dare la palla, datela a Suarez" diceva il Mago e non scherzava.
L'acquisito di Suarez e la sua nuova collocazione trasformarono l'Inter che nel giro di quattro anni vinse tre scudetti, due coppe dei campioni e due coppe intercontinentali. Lo spagnolo diventò l'uomo dal quale passava tutto il gioco dell'Inter che grazie ai suoi lanci precisissimi arrivava in porta con due passaggi. Era l'esaltazione del contropiede, gli anni d'oro del calcio italiano che in sei anni, dal 1963 al 1969, vinse quattro finali (2 a testa per Inter e Milan) e ne perse un'altra con l'Inter contro il Celtic. Ricordiamo che in quest'ultima partita Suarez non giocò per un infortunio a un piede (con lui in campo forse il risultato sarebbe stato diverso).
Da Berlusconi a Maldini, quando il calcio è cultura - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo
Nella settimana che ha visto il ritiro di Ibrahimovic, il licenziamento di Maldini e l'addio a Berlusconi, il Milan perde i simboli della sua storia: rinuncerà al suo modo d'essere?
La carriera di Suarez fu legata a tre maglie: Barcellona, dove nacque il suo mito, Inter e la nazionale spagnola con cui vinse gli Europei del 1964. Luisito è anche l'unico spagnolo ad aver vinto il Pallone d'oro. Nell'estate del 1970, alla fine del suo ciclo interista, passò alla Sampdoria, rinunciando alla proposta di Manlio Scopigno che gli propose di andare a Cagliari per guidare i sardi nella loro prima Coppa dei Campioni. Ammise, da uomo intelligente, di aver sbagliato. Dopo tre anni a Genova, dove giocò a centrocampo con Lodetti, l'avversario che nei derby milanesi era sempre stato il suo marcatore, decise di smettere. Provò la carriera di allenatore, che, essendo lui l'allenatore in campo per antonomasia, in molti profetizzarono gloriosa. Come tanti grandi numeri 10, però, il passaggio dal campo alla panchina non fu brillante: Inter, Cagliari, Spal, Como e in altre due occasioni chiamato al capezzale dell'Inter senza mai ottenere risultati degni di essere ricordati. Solo sulla panchina dell'Under 21 iberica raggiunse un'importante vittoria contro i pari età italiani guidati da Vialli e Mancini.
Ma il suo nome rimarrà nella storia del calcio come il decimo grano dell'ideale rosario della formazione della grande Inter: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Domenghini, Suarez, Corso. Una filastrocca ricordata a memoria da generazioni di tifosi, interisti e non eche tale rimarrà nella storia del calcio. Salutiamo l'architetto, così l'aveva soprannominato il suo grande rivale e amico Alfredo Di Stefano. Forse se n'è andato perché non faceva mistero che il calcio attuale non gli piaceva per niente. Non concepiva, lui che era il re dei lanci lunghi e del contropiede, la costruzione dal basso.
Giulio Giusti
Commenti (0)