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Gioca la Roma, come facciamo?

Tutto era iniziato qualche settimana fa, quando avevamo annunciato alla classe che saremmo andati in campo scuola. Dopo l'euforia iniziale iniziarono le domande: "Ma le camere?", "Ma i posti sul pullman?", "Possiamo usare i cellulari?", "Dobbiamo venire con la divisa?". A un certo punto la faccia di Sara, seconda fila, banco al centro, si fa più pallida. Alza timida la mano e fa: "Prof, ma il 5 maggio gioca la Roma. Come facciamo?".

Ecco, la mia personale attesa di Roma Leicester è iniziata così. Con un "Come facciamo?". In nemmeno una manciata di secondi avevamo già predisposto tutto, avevamo otto account di Dazn, dieci cellulari con le applicazioni, avevamo chiamato l'albergo per essere sicuri che ci fosse un televisore. Ma non era abbastanza. Quel "Come facciamo?", per me, era diverso, lasciava un'incognita più grande, un non detto più ampio. Io ero il professore. E chi mi conosce sa quanto viva male le partite, specie quelle decisive, quelle importanti. Come facciamo? Come faccio?

Anche perché la mente corre per forza ai ricordi, a tutte quelle volte che la Roma aveva giocato mentre ero in gita. Aprile 2010, gita ad Atene, primo liceo classico. La Roma si gioca lo scudetto contro l'Inter di quel Mourinho che all'epoca odiavo, lo ammetto, e che adesso amo. Sulla nostra panchina c'è Claudio Ranieri, che era in tribuna anche giovedì scorso, per la semifinale. In porta c'era Julio Sergio, in difesa Juan e Burdisso, davanti Menez, Vucinic, Totti. Giochiamo contro la Sampdoria di Storari, di Cassano, di Pazzini. E sarà proprio lui a mettere a segno una doppietta che pietrifica tutti e che infrange i miei, i nostri, sogni tricolori.

L'anno prima, marzo 2009, eravamo invece a Rodi, in quinta ginnasio. La Roma di Spalletti sfida l'Arsenal di Wenger agli ottavi di finale di Champions League. È la partita della coppia Diamoutene - Riise al centro della difesa, dello spirito di sacrificio, di una Roma in emergenza che va subito in vantaggio con Juan, prima che il brasiliano lasci il campo alla mezz'ora, per infortunio. Si va ai rigori, Doni para Eduardo, Almunia para Vucinic, segnano Pizarro, Julio Baptista, Montella, Totti, Aquilani, Riise. Poi Tonetto la manda alle stelle. Siamo fuori. Solo una volta, in gita, avevamo vinto. Era ad Amsterdam, nel 2011, la Roma vinceva il quinto derby di fila. Ma non valeva: avevamo giocato mentre eravamo in volo.

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Dizionario Romanista: Fede - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo

Fede, s. f. [Dal latino fides] Credenza piena e fiduciosa che procede da intima convinzione o si fonda sull'autorità altrui più che su prove positive

Con i derby ho sempre avuto un rapporto difficile. Li sento troppo, preferisco non vederli. Lo so, può sembrare assurdo, ma è qualcosa di viscerale, di irrazionale, che poi diventa fisico, entra nello stomaco. Ho sentito derby alla radio, li ho seguiti fissando il Televideo per 90 minuti, li ho vissuti ascoltando le urla del vicino di casa, provando a distinguere tra grida di gioia e strilli di disperazione.

Il destino, insomma, mi stava dicendo qualcosa. C'era solo un fattore che non avevo calcolato: la Roma in gita la avevo sempre vista da alunno. Ora, invece, sono professore. L'uscita a Napoli finisce alle 19, in tempo per tornare all'albergo, prepararsi per la cena e per la partita. Ho portato una sciarpetta, i miei alunni invece hanno osato di più. C'è una maglia di Zaniolo, una di Nainggolan, c'è una maglia dello scudetto addosso a un ragazzo che nel 2001 neanche esisteva. C'è fibrillazione, c'è attesa.

Alle 21.00 cala il silenzio. Non dobbiamo sgridare nessuno, non dobbiamo dire di abbassare la voce nella sale del ristorante. Se mai sono gli altri a doverlo dire a me. Diserto il tavolo dei prof per mettermi vicino a Marco, che ha il cellulare sintonizzato su TV8. La Roma gioca, spinge, ma la vedo a spezzoni. Fino a quando non vedo Sara che si alza, la sua partita è in anticipo, forse il cellulare le prende meglio. Si alza e sembra saltare proprio come Tammy Abraham, che svetta su inglesi e difensori, su avversari e rivali, su ansie e paure, per schiacciarla in rete di testa. È vantaggio, è gol. Siamo davanti. Nessuno tocca più niente, a tavola, prima di trasferirci tutti quanti nella sala comune davanti al televisore.

Il secondo tempo è orribile. Un misto di apprensione e di paura, di morsi alla lingua per trattenere le urla e calma apparente sulla sedia. La Roma è stanca, il Leicester gioca. La Roma sbaglia, il Leicester non sfonda. I minuti passano lenti. Poi scatta il recupero. Cinque minuti ma percepiti trenta. Tratteniamo il fiato, poi si esplode. La Roma ha vinto, la Roma è in finale. E mentre abbraccio i miei alunni mi rendo conto di una cosa: molti di loro una Roma in finale non l'hanno mai vista. Una Roma in finale in Europa non l'ho mai vista nemmeno io. Ed è una sensazione talmente nuova che non si sa come viverla. Si è contenti, ovvio, ma si è anche già in apprensione. Si è felici, ma non del tutto. Si piange e si urla, ma non fino all'ultima lacrima e all'ultimo decibel, perché te li devi tenere per la finale, per il grande giorno. Te li devi tenere per Tirana. È una sensazione nuova, strana, mai vissuta. Per me, per loro, per noi. Mi siedo sul divano, per realizzare meglio mentre tutti sono ancora ad abbracciarsi. Si avvicina di nuovo Sara: "Prof, io non ce la faccio ad aspettare. Adesso come facciamo?". 

Dizionario Romanista: Famiglia
As Roma e Juventus Women in finale di Coppa Italia...
 

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