La finale di Europa League lascia in eredità qualcosa di molto importante per la Roma e per i Romanisti.
Non ho nominato la parola "Roma" per almeno quattro giorni. E penso che sia stato l'intervallo più lungo di tutta la mia vita. Non ho ancora mai detto ad alta voce la parola "finale". Cambio in fretta discorso quando ci si avvicina a parlare di quella cosa lì, spengo la televisione quando passano le immagini al telegiornale, scrollo rapidamente sullo schermo ad ogni post che mi ricorda quello che è successo. Provo a fare finta di niente.
Ma nella mia testa non riesco a stare zitto, non riesco a scacciare fantasmi e pensieri. Il gol di Dybala, la Roma in vantaggio, il sogno accarezzato e poi svanito, il gol del pareggio, le occasioni beffarde, il rigore non dato, quelli sbagliati. La finale di Budapest è una ferita che non si rimargina, come quelle del campetto quando ero bambino, quelle che rompevo non appena si era formata la crosta e il ginocchio ricominciava a sanguinare. Lo facevo apposta e capisco che lo sta facendo anche ora, mentre apro la galleria del cellulare e cerco tra le foto l'unico scatto di mercoledì scorso, mercoledì 31 maggio, il giorno della finale. Non è una foto bella, anzi, è una foto qualsiasi, scattata in fretta, senza un obiettivo vero e proprio, eppure a me piace tantissimo. Mi piace perché ci vedo l'atmosfera di quel momento, l'attesa, la trepidazione, la voglia di entrare due ore prima anche se non dentro non c'è nessuna partita ma solo un maxischermo, l'ansia, la paura, il sogno. La voglia di mantenere quel momento intatto, fermo. In quel momento lì la Roma deve ancora giocare, la Roma può ancora vincere. Mentre guardo questa foto e scrivo, sento ancora quella sensazione di pugno nello stomaco che mi accompagna dalla notte del 1 giugno. La gola si stringe, la ferita ricomincia a sanguinare. Quanto sarebbe stato bello vincere? Quanto sarebbe stato giusto?
Nel bene e nel male - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo
Non so se ho veramente pensato che potesse essere un punto di non ritorno, una botta troppo forte da reggere, una sconfitta troppo pesante da cui riprendersi. Di certo non sapevo come superarla. Mi sono sentito perso, svuotato. Poi qualcosa ha ricominciato a riempirmi di nuovo, a curare la ferita. Il giorno dopo la finale persa, a scuola, entro in classe e un alunno aveva addosso la maglietta della Roma. Gli occhi erano ancora rossi, forse per il sonno, forse per il pianto. Ma quando hanno dovuto scegliere che cosa mettere quegli occhi non hanno avuto dubbi: la maglietta della Roma. Un orgoglio, un segno di riconoscimento, un qualcosa di cui vantarsi anche nei momenti difficili, di cui essere fieri sempre. Ma anche una corazza, uno scudo, un luogo di rifugio a tinte gialle e rosse.
Qualcosa aveva ripreso ad agitarsi in me, a disinfettare la ferita. E penso che qualcosa si sia definitivamente chiuso nella partita di ieri sera, una partita che avevo immaginato per settimane, che avevo sognato in ogni minimo particolare, in ogni singolo aspetto. E che invece è andata in maniera diversa. Ieri, quando è entrata in campo la Roma, ho pianto. E lo so che ci sono cose più importanti per cui piangere, cose più difficili, cose più tremende. Ma stavolta non me n'è fregato niente. C'eravamo solo io e la Roma. Come sempre. Senza nessun'altra cosa al mondo. Io e la Roma come mai l'avevo sentita prima. Un tutt'uno, un'unica cosa, un'unica entità. Mi sono sentito più romanista di quanto lo sia mai stato. Ed è stato in quel momento che ho capito che ci sono certezze più forti di tutte le speranze, realtà più belle di tutti gli altri sogni. Prima ancora di qualsiasi traguardo, di qualsiasi impresa, di qualsiasi vittoria, ci sarà sempre e solo la Roma. La forza di un amore inevitabile, l'importanza del vessillo prima ancora del porto, il vento che soffia ancora. Come quello che gonfia la bandiera giallorossa del bambino davanti a me, in tribuna, la maglia di Dybala sulla schiena. Un vento che non smetterà mai di soffiare.
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