La storia della pugile Cindy Ngamba, che non può tornare in Camerun perché omosessuale e combatte (e vince) per il Team Rifugiati alle Olimpiadi.
I latini dicevano "Nomen omen", il nome è un presagio, il nome è un destino. Per capire dove andrà una persona basta partire da quello. Per capire cosa farà Cindy Ngamba basta guardare il suo passaporto, il nome completo: Cindy Winner Djankeu Ngamba. Winner, appunto. Vincitrice. E avevano ragione i latini perché la pugile è il primo atleta di sempre a vincere una medaglia per la Squadra Olimpica dei Rifugiati. Il colore ancora non si sa, almeno fino a giovedì, ma intanto la vittoria contro la francese Davina Michel, ai quarti di finale dei 75kg boxe, le è valsa una semifinale storica. "Per me significa il mondo – ha detto la pugile – voglio dire ai rifugiati in tutto il mondo: continuate a lavorare sodo, continuate a impegnarvi e potete realizzare qualsiasi cosa".
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"So che non mollerai, Angela, e so che un giorno guadagnerai con sforzo e sudore quello che meriti. In una competizione finalmente equa". La Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, scrive così sui social nella serata di ieri. La serata dell'incontro tra la pugile italiana Angela Carini e la sua rivale algerina Imane Khelif. In foto c'è il volto triste dell'atleta, la mano della Premier sulla guancia, a mo' di carezza, il sorriso da mamma.
Il destino è nel nome, ma anche nel modo in cui vieni al mondo. "Quando sono nata, sono uscita prima con i piedi: una cosa che non credo accada molto spesso – ha raccontato a Eurosport - Lo dico perché da quel giorno mia madre mi ha sempre chiamata testarda e penso che mi sia rimasto impresso. Quando affronto qualcosa di difficile o qualcosa che le persone mi dicono che non posso ottenere, faccio tutto il necessario per dimostrare che invece posso riuscirci". Cindy Ngamba nasce in Camerun, dove trascorre l'infanzia insieme alla mamma e al fratello, Kennet. A 11 anni prendono il loro primo aereo, destinazione Regno Unito, Bolton. Qui vive il papà, qui inizia a studiare, qui inizia a fare boxe. "Sono sempre stata portata per lo sport, anche grazie alle due insegnanti di educazione fisica, la signora Park e la signora Schofield, che erano figure materne per me. Ho praticato tutti gli sport che ho potuto: netball, rounders, cricket, calcio". Poi a 15 anni i primi guantoni, i primi allenamenti sul ring e poi i primi incontri, i primi successi, le prime medaglie. "È stata Amanda Coulson, England Boxing Lead National Coach, ad aiutarmi a scoprire la squadra olimpica dei rifugiati del CIO. Loro mi hanno dato l'opportunità di gareggiare all'estero per inseguire il mio sogno di qualificarmi per le Olimpiadi".
Cindy Ngamba combatte per la squadra rifugiati perché altrimenti non potrebbe con nessun'altra bandiera. Non può con quella inglese, perché non ha i documenti. Non può con quella del Camerun, perché lei in Camerun non ci può tornare. Il motivo? È omosessuale e nel suo paese è illegale. Lo dice il codice penale: "Qualsiasi persona abbia relazioni sessuali con una persona dello stesso sesso deve essere punita con cinque anni di reclusione e una multa tra i 20 mila e i 200 mila franchi". Il trattamento riservato a omosessuali e a transessuali è durissimo, con violenze e torture che spesso conducono alla morte. A essere incriminati, in Camerun, sono anche tutti coloro che possono "sembrare" omosessuali, come dimostra la storia di Jonas Kimie e Franky Ndome, arrestati in una discoteca e condannati a 5 anni di reclusione nel 2011. "L'arresto di due uomini camerunensi incarcerati per apparire gay – ha spiegato Amnesty International - perché indossavano abiti femminili mette in luce la sistematica discriminazione nei confronti di coloro che sono percepiti come omosessuali nel paese".
"Sono grata di essere protetta e di poter rimanere nel Regno Unito – ha detto Cindy Ngamba - È triste e scioccante pensare che un paese possa giudicare qualcuno in base alla sua sessualità e dire "no". Non accade solamente in Camerun, succede in molti altri paesi dove la vita delle persone è in pericolo solo perché sono gay". Il Regno Unito è stata la sua salvezza, ma non è sempre stato così facile. Il bullismo a scuola, le discriminazioni, addirittura l'arresto e il rischio di essere rimandata indietro. Succede nel 2019, all'ufficio immigrazione di Manchester. La pugile, che all'epoca aveva 21 anni, si siede per firmare alcune carte e invece si ritrova le manette sulle mani. "Mi hanno messo nel retro di un furgone e mi hanno portato a Londra. Non sapevo dove stavamo andando e nemmeno che quel luogo fosse un campo di detenzione. Sembrava una prigione ed era pieno di donne con i loro bambini. Poche ore dopo, una donna ha detto che potevo andarmene. Ripenso a questo momento e ringrazio Dio ogni giorno perché ci sono persone che non sono state fortunate come me. Persone che hanno costruito la loro vita qui, ma sono state costrette ad andarsene".
Fortuna, destino, ma anche perseveranza, impegno, sacrificio. Quello che le ha permesso di arrivare fino alle Olimpiadi e di portare a casa una medaglia per il Team Rifugiati. "All'inizio mi vergognavo di essere chiamata rifugiata. Ora ho cambiato mentalità: non si dovrebbe mai guardare qualcuno perché è un rifugiato o un immigrato, una persona dovrebbe essere guardata per quello che è".
"Essere nello sport, nella boxe, come donna, come donna nera, come africana, come rifugiata, sono tutti elementi che entrano in gioco – conclude Cindy Ngamba - Ma alla fine sono solo umana. Io non mi vedo come un modello, vedo me stessa semplicemente come un essere umano." La cosa più semplice del mondo.
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