Nella settimana che ha visto il ritiro di Ibrahimovic, il licenziamento di Maldini e l'addio a Berlusconi, il Milan perde i simboli della sua storia: rinuncerà al suo modo d'essere?
Non è stata una settimana semplice per i tifosi rossoneri, e in generale per tutto il calcio italiano. L'addio al calcio di Ibrahimovic, totem del ciclo del Milan degli ultimi anni; il licenziamento, brusco nei modi e nelle forme, di Maldini e Massara; la morte di Berlusconi, l'uomo che, al di là dei giudizi che se ne possono trarre, ha impattato nella cultura del nostro paese dagli anni 80 del Novecento per almeno altri trent'anni.
Eventi naturalmente diversi, eppure appartenenti alla stessa sfera culturale. Secondo un concetto fondamentale per l'antropologia, infatti, la cultura è il «complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico». Seguendo l'Enciclopedia Treccani, quindi, ogni fenomeno sociale in un determinato contesto geografico è parte della cultura di quel paese: che nella nostra società lo sia lo sport (e il calcio in particolare), non è certo materia da studiosi.
Di Berlusconi si è detto e si dirà per giorni. Basterebbero i 29 titoli in 31 anni vinti da proprietario del Milan, le decine di aneddoti di calciatori, allenatori e giornalisti che ne raccontano l'unicità: dall'immagine dell'elicottero a Milanello passando per i capelli e le barbe dei calciatori, fino ad arrivare ai "consigli" sul modulo d'attacco o ai cronisti sempre in giacca e cravatta.
Uomo di cultura, uomo di massa per eccellenza, è stato Ibrahimovic, al punto che si è parlato più del suo personaggio che della sua forza in campo: 31 titoli vinti, di cui 11 campionati nazionali, dicono solo una parte di ciò che ha rappresentato Zlatan in più di 20 anni di carriera. Lo stesso che l'Italia ha visto nei panni di presentatore a Sanremo, l'evento più nazionalpopolare che esista; quello che ha recitato in Asterix e Obelix.
Paolo Maldini dirigente: una scommessa vinta
Poiché la cultura è legata a un momento storico e a uno spazio, la vicenda Maldini è il massimo esempio di quanto sia difficile comprendere quanto lo sport sia legato ai nostri modi di pensare, ai nostri simboli. E di quanto sia difficile integrare culture diverse.
Perché, come urlavano i tifosi fuori da Casa Milan, «Maldini è il Milan», e non è un caso se dal 1978 (e anche prima se si considera la carriera da allenatore di papà Cesare) al 2023 non c'è mai stata una stagione in cui non ci fosse un Maldini tra i tesserati. Abbiamo visto le grandi bandiere andare via, da Zanetti a Del Piero per arrivare a Totti; nessuno può vantare una dinastia come quella che da Cesare arriva fino a Daniel (probabilmente prossimo alla cessione).
Certo, la storia non fa il mercato: per essere un bravo dirigente non basta essere stato il terzo recordman di presenze in nazionale, primo nel Milan; non bastano i 26 trofei con 5 Champions League. Tutti sanno chi è stato Paolo Maldini giocatore, molto più che uno dei migliori difensori della storia: esempio di fedeltà, professionismo, eleganza e serietà in campo e fuori; "il capitano" anche dopo il ritiro, persino per chi ne ha ereditato la fascia. Fuori dall'alone mitico che l'accompagna, però, non era scontato fosse capace anche in giacca e cravatta.
La grande sorpresa di Paolo, che avrebbe lavorato solo per la sua società, è che ha imparato a primeggiare anche fuori dal campo. Per anni è sparito dalla circolazione: impossibile che uno così potesse convivere con il potere di Galliani, in una proprietà che si avviava al declino e alla vendita. «Hanno distrutto il mio Milan», tuonava nel 2014, facendo capire che ormai l'ex campione era pronto a dire la sua.
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Dovrà aspettare ancora qualche anno, dopo la cessione e l'infausta parentesi dei cinesi, per essere chiamato dal fondo Elliott. È il 2018, il capitano torna alla guida della squadra, ma mettendosi al servizio di Leonardo e, l'anno successivo, di Boban: nessuno discute la sua intelligenza del calcio, ma per dirigere una società come il Milan serve un apprendistato. E per capirlo, ci vuole umiltà.
L'obiettivo del fondo americano è chiaro sin da subito: risanare i conti, investire sui giovani e rientrare progressivamente nelle coppe europee, in modo da vendere dopo pochi anni. E dopo risultati altalenanti, il primo momento di svolta: ottimo il progetto dei giovani, ma per scalare le classifiche servono i campioni, il loro carattere, il loro peso in campo e fuori. Forse prendere Ibrahimovic e Kjaer a gennaio 2020 non rientrava nei piani della proprietà, ma era l'unica strada per tornare a competere. Ed è qui che si vede la prima differenza culturale: nel nostro calcio conta tanto il fisico (anche a 38 anni), conta sapersela cavare in un campionato pieno di insidie; se anche non si potranno fare le famigerate plusvalenze, sarà il resto dei giovani a consentirle.
I risultati della campagna acquisti arriveranno solo nel post lockdown; intanto, il marzo 2020 vede un secondo scontro. Il "sacrificato" sarà Boban, che si oppose fermamente alle trattative per portare in Italia Ragnick, il "mago" del gruppo Red Bull: tanti giovani e bel gioco tra Shalke 04 e Lipsia; pochi, pochissimi titoli. Non si discuteva la bontà dei metodi dell'austriaco, quando piuttosto l'applicabilità nel nostro contesto. Se ne discutevano i tempi, dal momento che la squadra stava ripartendo con Pioli, bravo coi giovani ed esperto della Serie A. Al centro di tutto, però, una questione di principio: chi, tra proprietà, A.D. e area tecnica, dovesse decidere sulla squadra. Boban fu licenziato, ma passò la sua linea, e i risultati sono noti.
Rotture legittime, strappi eccessivi
Di fronte alla crescita (economica e sportiva) del Milan di questi anni, quindi, perché arrivare a una rottura? Non sono sufficienti uno scudetto e una semifinale di Champions, certo non da favoriti? È vero, il mercato dell'ultima stagione, al netto del budget limitato, ha portato pessimi risultati: fatta eccezione per Thiaw, le scelte di Maldini e Massara non sono state impiegate o non hanno dato apporto alla squadra. E dire che il precedente era il primo mercato in cui Maldini aveva ottenuto la piena autonomia che chiedeva con forza, dopo quella estenuante trattativa per arrivare al rinnovo del proprio contratto. Segno che le visioni erano diverse già allora.
Nella girandola a cui si sono abituati al Milan, il cambio di proprietà del settembre scorso ha cambiato (di nuovo) le carte in tavola. Dal momento che il progetto sportivo di Cardinale è in continuità con Elliott, però, non è pensabile che un mercato errato possa aver fatto crollare la fiducia nei due dirigenti: quelli che hanno sbagliato, al momento, con De Keteleare, sono gli stessi che hanno portato al Milan Kalulu, Hernandez, Bennacer, Tonali, Leao, Saelemakers. Molti di loro, Theo su tutti, proprio perché convinti dal carisma di Maldini. Per non parlare del coraggio con cui, rispettando i paletti della proprietà, non hanno avuto problemi a rinunciare (con esiti alterni) a Donnarumma, Calhanoglu, Kessie e Romagnoli, mostrando come sia possibile fare un calcio diverso, dove conta la voglia di stare in un gruppo e non le commissioni dei procuratori.
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La rottura tra Maldini e Cardinale viene da lontano. Dimostra l'incompatibilità tra un imprenditore americano e chi, forte della sua storia di giocatore e dirigente, pretenderebbe di scegliere in autonomia collaboratori e strategie. In Italia, non altrove, esistono i direttori sportivi, quelle figure onnipresenti tra campo e ufficio: dirigenti come Marotta, Giuntoli, Tare, Pradè (pur con la proprietà americana), Corvino, Sabatini. Gli stessi che ha chiesto a gran voce uno come Mourinho, guardando proprio al modello Milan. Non significa che quella italiana sia la via migliore per il successo, ma è, appunto, la più adatta al nostro contesto.
E quando, all'indomani dell'uscita dalla Champions League, Maldini ha sottolineato il bisogno investimenti per poter fare un salto di qualità, lo ha fatto consapevole del reale valore della sua rosa, bisognosa di innesti importanti dopo una stagione sottotono. Stando alle parole del presidente Scaroni e dell'A.D. Furlani, le idee di Cardinale prevedevano un contenimento della spesa e, soprattutto, una gestione dell'azienda più orizzontale: ciò che Paolo, abituato a metterci la faccia, non ha mai accettato.
Le responsabilità di Maldini «saranno assegnate a un gruppo di lavoro integrato», recitava lo striminzito comunicato dello scorso 06 giugno. Avere idee diverse è normale: se quelle di una proprietà non collimano con quelle del suo principale dirigente, la cosa più normale è lasciarsi. Farlo in maniera brusca, senza incontri e mediazioni, è invece più tipico del Trump di The apprentice che dell'uomo di calcio. Ancor più se tre giorni prima dell'incontro con Cardinale veniva firmato il contratto più importante, quello di Leao, e si decideva l'addio al calcio di Ibrahimovic.
E allora non si tratta di inesperienza, né di risultati non arrivati. Si tratta di due modelli di intendere l'azienda calcio probabilmente antitetici: nel modello americano, dove i conti vengono prima di tutto, non c'è molto spazio per nomi che scaldano la piazza, esosi e senza garanzie di successo. L'ultima parola è quella del capo, mentre la dirigenza lavora integrando i vari settori; e dove non c'è spazio per le critiche a mezzo stampa.
Vicende figlie di due culture difficili da conciliare, al punto che non è sorprendente che si prendano strade diverse. Ciò che dalle parti di Cardinale non hanno compreso, tuttavia, è che il calcio è un'istituzione con linguaggi, azioni e liturgie che le sono propri: rinunciare al dipendente Maldini è lecito; licenziare, con 5 righe di un comunicato, il massimo rappresentante del mondo rossonero è rompere con una cultura. Lo sconcerto di tifosi e commentatori; le parole al miele e il malumore dei calciatori; il coro unanime di voci dal mondo del calcio (Vieri, Nesta e Leonardo su tutti) ha dimostrato quanto Paolo Maldini rappresenti un simbolo per il calcio europeo.
Il futuro non sarà certo nebuloso e i presupposti per fare bene ci sono tutti. Si vedrà se il modello di fare mercato basato sulle statistiche (consuetudine da più anni ormai) sarà così efficiente, in grado di superare l'occhio di chi il campo l'ha visto dalle posizioni più alte. Tuttavia, per capire quanto conti il modo di fare sport, basterà citare Carlo Ancelotti: un altro che, vincente da giocatore e allenatore, rappresenta al meglio il modo di essere italiano. Compagno e allenatore di Paolo, vincente nell'era Berlusconi, allenatore e amico di Ibrahimovic; uno che ha trovato casa nelle due società più legate alla loro tradizione, Real e Milan. Al Giornale ha affermato che «quello che è successo con Maldini dimostra una mancanza di cultura storica, di rispetto della tradizione milanista». E se ancora un po' di romanticismo è concesso, hanno ragione i tifosi: Maldini è il Milan.
Andrea Sciretti
Foto in copertina: SempreMilan
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