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La Roma è in finale

Gli abbracci di sere come quelle di giovedì servono a capire se si è vivi, se si sta solo sognando, se è tutto vero. E sì, la Roma è in finale. Voi quante volte l'avete detto?

C'è stato un momento, negli ultimi minuti di Bayer Leverkusen Roma, in cui il tempo si è fermato davvero. Un tempo che andava già piano di suo, lento, denso, prolungato. Sembrava fermarsi a ogni tiro, a ogni passaggio, a ogni avanzata dei tedeschi. Un tempo immobile. Quando l'arbitro ha dato recupero, poi, per me il tempo si è bloccato del tutto.

Sembrava una scena di un film, di quelli in cui il protagonista continua a parlare, a guardarsi intorno, a riflettere, ma tutto intorno a lui è fermo, sullo sfondo, scolorito. Otto minuti. Mancano otto minuti alla finale. Sembrano niente, invece sono interminabili. Inizi a contare, ma ti accorgi che sono passati solo trenta secondi. Ti guardi intorno per avere la certezza che sia tutto reale, che è veramente così, che tu davvero ti stai conquistando l'ennesima finale europea in due anni, che tu davvero ti stai portando a casa una semifinale. Le facce stravolte di Roma Feyenoord stavolta lo sono ancora di più. Sono volti scavati, occhi sbarrati, unghie mozzicate. Cuori resilienti. Ne mancano ancora due quando dal fondo del locale parte un coro: "Forza Roma alè, Roma alè, Roma alè, Roma alè". C'è chi predica calma, chi inizia a cantare, chi aveva la gola talmente stretta e lo stomaco così chiuso che non riusciva a emettere suono. Era un coro ancestrale, un modo per provare a scacciare la paura, per ingannare il tempo che non passava, per spingere più lontano dalla nostra porta il pallone. Un coro per far ripartire il tempo, per vedere se eravamo ancora vivi, per capire se fosse tutto vero.

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Un capitano che guarda la sua gente, la indica, le manda un gol, le chiede scusa. Un capitano difeso come uno di famiglia, protetto, perdonato, coccolato

Perché c'era bisogno di conferme anche su quello, dopo l'ennesimo minuto extra di un recupero infinito, dopo una partita che è durata 103 minuti senza arrivare ai tempi supplementari. Una partita eroica, epica, tremenda, orrenda e bellissima. Per questo quando il tempo smette di scorrere perché è finito serve una prova in più oltre al triplice fischio dell'arbitro. Serve guardare le braccia dei giocatori, vedere se stanno esultando. Serve stringersi forte, vedere se siamo tutti interi, vedere se siamo ancora vivi. A questo servono gli abbracci di sere come questa: a capire se è vero. E così le pacche, le mani, i baci. Per svegliarci. Per chiedersi se è solo un sogno e rispondersi no. Non lo è.

Ci sono voluti più di due giorni per mettere a posto quello che è successo giovedì sera. E ancora non passa. Mi sveglio e il primo pensiero è sempre lo stesso: la Roma è finale. Lo leggo negli articoli, lo vedo in giro per strada, lo sento in ogni cosa. E lo scrivo, sempre, a chiunque. Lo dico a ripetizione. Almeno una volta ogni ora, sussurrato o ad alta voce. Me ne sono accorto pochi minuti fa, minuti che hanno ripreso a non scorrere, a passare lenti, perché mancano troppi giorni. E voi quante volte avete detto la parola "finale"? Quante volte avete pensato a Budapest, da giovedì sera? Quanto spazio occupa, nelle vostre giornate, il pensiero della Roma, del 31 maggio?

Ogni volta che me lo ripeto, che mi immagino quello che può accadere, che mi rivivo quello che è successo, forse lo faccio per paura. Paura di svegliarmi, paura di essermi sbagliato, paura che non stia accadendo. Eppure ogni volta è sempre più vero. Ogni messaggio, ogni frase, ogni pensiero. La Roma è in finale. Di nuovo, ancora in Europa, per due anni di seguito. Ed è la mia frase preferita dopo l'altra, "la Roma è in vantaggio". O forse anche di più. 

Un vento che non smetterà mai di soffiare
La Roma sì
 

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