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Sven-Goran Eriksson, l'ultimo saluto di un galantuomo

Un rivoluzionario senza essere rivoluzionario, un galantuomo, uno troppo per bene. La storia di Sven-Goran Eriksson, dagli inizi con il Goteborg allo scudetto con la Lazio. 

Sven-Goran Eriksson se n'è andato con la classe che l'ha sempre contraddistinto. Prima di farlo ha impartito una lezione di vita con un video commovente che ha fatto il giro del mondo.

"Sì, ho il cancro ma non dispiacetevi e sorridete alla vita" è stato il suo ultimo messaggio, estratto da un documentario che uscirà postumo. E mentre diceva queste parole un sorriso si apriva sul suo volto, che seppur fiaccato dalla malattia, era quello di un uomo perbene a cui per tanti anni abbiamo voluto bene. Ecco, se proprio dobbiamo trovare un difetto, se difetto può essere, a Eriksson, prima di elencare i molti pregi e le grandi qualità che ha dimostrato in carriera e nella vita, è proprio il suo essere stato troppo perbene. In uno sport come il calcio dove la cattiveria non solo agonistica (magari ci fosse solo quella) viene vista come un pregio e l'antisportività, lo scaricare le colpe sui giocatori o gli arbitri per una sconfitta o sulle società per i mercati poco faraonici sono all'ordine del giorno, dal grande allenatore svedese, a differenza di tanti suoi colleghi, non abbiamo mai sentito una lamentela contro arbitri, dirigenti o giocatori. Non cercò alibi nemmeno dopo la sua sconfitta più cocente, il drammatico Roma-Lecce del 20 aprile 1986. Quando i salentini, già retrocessi, espugnarono l'Olimpico 3 a 2 e la Roma vide svanire quello che sembrava uno scudetto sicuro. Non uno scudetto qualsiasi, uno scudetto con una rincorsa pazzesca contro l'odiata rivale, la Juventus, in anni in cui la ferita del gol annullato a Turone era ancora sanguinante. Eppure, Eriksson visse quella tragedia collettiva con classe, prendendosi, solo come un vero capo sa fare, tutte le responsabilità. Così come ha accettato e vissuto a testa alta il dramma personale che l'ha colpito con un tumore al pancreas.

Eriksson sulla panchina della Lazio

Sven è stato un allenatore rivoluzionario senza essere un rivoluzionario. Non si è mai vantato di aver inventato nulla o cambiato qualcosa a differenza di altri suoi colleghi (vero Sacchi?). Eppure il suo calcio è stato per molti anni sublime e spettacolare e, all'inizio degli anni '80, portò profondi cambiamenti. Svedese come Liedholm, ha proposto una versione moderna del gioco del suo connazionale in chiave ultraveloce. Ma la sua forza è stata l'empatia che riusciva a creare con tutto lo spogliatoio. Un leader dolce che ha sempre cercato il dialogo con i suoi uomini e che dai suoi è stato più che rispettato, diremmo quasi amato. A dimostrazione di ciò, l'altissimo numero dei suoi ex giocatori diventati poi allenatori, alcuni bravissimi, altri bravi: Carlo Ancelotti, Diego Simeone, Roberto Mancini, Sinisa Mihajlovic, Simone Inzaghi, Sergio Conceicao, Alessandro Nesta, Matìas Almeyda e molti altri.

A differenza di Liedholm, una leggenda in entrambe le sue vite calcistiche, la carriera da giocatore di Eriksson fu insignificante e breve. Dopo un'oscura vita da terzino nelle serie minori svedesi, un infortunio a soli 27 anni fu la svolta per passare dal campo alla panchina. In realtà, la spinta giusta gliela diede il suo allenatore e maestro: Tord Grip, che incurante dell'apparenza dei piedi poco educati del suo terzino notò che quel ragazzo capiva di calcio come pochi. "Fammi da secondo" fu la domanda di Grip. "Certo, grazie, mister" fu la risposta di Sven che però, già un anno dopo, capì di essere nato per fare il capo allenatore. Subito un campionato vinto di terza serie in Svezia, giusto il tempo per farsi notare e chiamare in serie A dal Goteborg. Una nobile decaduta del calcio scandinavo in cerca di rilancio. Quel giovane allenatore sembrava la persona giusta e così fu. I soldi erano pochini ma le idee tante. Subito una coppa nazionale e poi un triplete meraviglioso il quarto anno: scudetto, coppa nazionale e soprattutto, Coppa UEFA, nel 1981/82, in una finale che passò alla storia. 

Gli svedesi affrontarono, su due incontri di andata e ritorno, il favoritissimo Amburgo, fresco campione di Germania. L'Amburgo era uno squadrone, allenato da Happel, uno dei più grandi allenatori di sempre, che l'anno dopo avrebbe vinto la Coppa dei Campioni battendo la Juventus nella famosa finale di Atene 81 a 0 gol di Magath). Nella doppia sfida gli uomini di Eriksson distrussero gli avversari: 1 a 0 nella partita di andata in casa e un roboante 3 a 0 col quale violentarono e ammutolirono il Volksparkstadion (lo stadio del popolo) di Amburgo. A memoria, nessun avversario, a eccezione di Sven, si è mai permesso di rifilare 3 gol di scarto a domicilio a sua maestà Happel in una competizione europea. Il tempo di mettere questa medaglia sul petto insieme agli altri allori e per Eriksson arrivò la chiamata del Benfica. Anche in Portogallo due anni alla grande guardando l'Atlantico nella sua stupenda villa di Cascais (Sven è sempre stato un gaudente) e cercando di dominare l'Europa dopo aver fatto polpette dei rivali in patria con due scudetti consecutivi. Anche in Europa il Benfica andò bene, raggiungendo la finalissima di coppa UEFA persa poi contro l'Anderlecht. Il nome di Sven era ormai sulla bocca di tutti ed era ormai maturo il suo salto in quello che era considerato il campionato più bello del mondo. Fu scelto dal presidente Dino Viola per prendere il posto del suo connazionale Nils Liedholm sulla panchina della Roma. Un'eredità pesantissima, visto che i giallorossi erano reduci da uno scudetto nel 1983, un quasi scudetto nel 1981 e dalla finale di Coppa Campioni persa all'Olimpico contro il Liverpool nel 1984. I bene informati raccontano che fu lo stesso Liedholm, che si stava trasferendo al Milan, a consigliare Sven al suo presidente. Il primo anno, il 1984/85, fu di ambientamento, nel secondo ci fu il menzionato dramma della partita col Lecce anche se arrivò un secondo posto con un gioco altamente spettacolare a mille all'ora. Il terzo fu inquinato dalla delusione della mancata vittoria dell'anno precedente e arrivarono le sue dimissioni a due giornate dal termine. Su di lui, da un certo tipo di stampa, iniziarono a piovere battute poche piacevoli e prive di senso che l'etichettarono come un perdente di successo. Ripartì dalla Fiorentina che allenò per due stagioni e dove sfiorò la qualificazione alla coppa UEFA nella prima e la raggiunse invece nella seconda grazie a uno vittoria nello spareggio contro la Roma, vinto dai Viola con un gol del super ex Pruzzo. A Firenze incontrò Roberto Baggio. Il rapporto non fu proprio idilliaco ma litigare con Eriksson era impossibile e anni dopo lo stesso Baggio riconobbe a Eriksson dei grandi meriti nella sua crescita.

Eriksson alla Sampdoria

Sentì il richiamo del Portogallo e della sua villa sull'Atlantico e tornò al Benfica. Tre anni con uno scudetto e una finale di Coppa Campioni persa per 1 a 0 contro il Milan di Sacchi. Di nuovo rifioccarono le battute sul perdente di successo, ma i maligni non sapevano che Sven non poté nulla contro la maledizione di Bela Guttman, leggendario allenatore ungherese, che una volta lasciato il Benfica per disaccordi economici nel 1966 lanciò un anatema contro la società: «Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d'Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai più una Coppa dei Campioni».
Dopo quella sconfitta decise di tornare alla Sampdoria nel post scudetto dove offrì 5 anni di grande calcio e ottimi risultati ma soprattutto incontrò Roberto Mancini col quale instaurò una grande amicizia. A Genova nacque anche la sua Lazio che avrebbe vinto lo scudetto nel 2000. Mancini, Mihajlovic, Lombardo erano tutti blucerchiati prima di passare alla Lazio. Dopo Genova il ritorno a Roma, sponda biancoceleste. Era la Lazio di Cragnotti e delle spese folli. La parola d'ordine era "vincere" e Sven, il perdente di successo, vinse tanto: uno scudetto, una Coppa delle Coppe (l'ultima della storia della competizione) e una supercoppa Europea. Lo scudetto del 2000 sarà ricordato per mille motivi con la sconfitta della Juventus a Perugia sotto il diluvio e i giocatori biancocelesti che aspettavano l'esito della partita guardando la tv. Era una grande squadra quella Lazio con tanti caratteri forti che solo Sven con la sua calma riuscì a domare e a far andare d'accordo: Mancini, Simeone, Mihajlovic, Nesta, Stankovic, Veron e Nedved. Finito il ciclo alla Lazio iniziò il secondo tempo della sua carriera da allenatore, sinceramente meno brillante del primo, dove spiccano cinque anni alla guida dell'Inghilterra, senza vincere nulla (ma tolto sir Alf Ramsey nessun'altro ha vinto con i bianchi) ma lasciando un gran bel ricordo e poi un girovagare per il mondo dalla Cina, passando per le Filippine e l'Arabia Saudita e finendo nelle Filippine.

Nel salutarlo vorremmo, anche se è impossibile, chiedergli una cosa. Nel 1984, quando arrivò alla Roma era soprannominato il rettore di Torsby e girovagava per Trigoria con una valigetta 24 ore dalla quale non si separava mai. Mister, cosa ci teneva dentro? 

Ciao Sven, laziale per sempre
Tensioni tra Lotito e i tifosi, è ora di passare i...
 

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