E venne il giorno. Gianluigi Donnarumma è tornato ieri sera a giocare a San Siro con la maglia dell'Italia a pochi messi dall'addio a parametro zero al Milan. Nonostante le richieste della vigilia dello stesso portiere di non fischiarlo durante la gara, il popolo rossonero è accorso in massa proprio per dimostrare tutto il disappunto per il ritorno del classe '99. Aldilà dei tanti moralisti che sia nell'immediato post partita, sia nella giornata di oggi hanno condannato con finto pietismo i fischi piovuti dalle tribune, ciò che sembra più opportuno sottolineare è la situazione che si trova a vivere il portiere del PSG.
La reazione alla contestazione non è stata proprio quella di un calciatore con personalità. Impacciato tra i pali, impreciso coi piedi, in lacrime a fine primo tempo. Saper reggere le pressioni non è mai stato uno dei pregi di Donnarumma che sembra essere un ragazzo che per sprigionare tutto il proprio talento debba essere coccolato, come successo agli ultimi Europei o negli anni al Milan. Il grande errore di Raiola sta proprio qui. Non tutti i suoi assistiti posseggono l'ego disarmante di Zlatan Ibrahimovic. Il centravanti svedese ha sempre dichiarato e dimostrato di rendere al meglio soprattutto quando trova sulla sua strada dei nemici. Più mi fischiate, più rendo.
Donnarumma è un ragazzo che si trova a gestire una pressione molto più grande di lui senza avere le spalle per reggerne il peso. Ci si domanda allora se sia convenuto al portiere, aldilà dell'aspetto economico che al Milan era comunque già sostanzioso, scegliere il PSG per continuare il percorso di crescita. Il club francese è la massima espressione dell'autoreferenzialismo del calcio, una società di plastica nella quale non si cresce, ci si arricchisce. Ricco tra i ricchi. I fischi di ieri sera non rappresentano comunque l'indignazione per la scelta fatta (un professionista è libero di prendere le scelte che vuole, anche se malconsigliato) ma per il modo. Donnarumma ha dimostrato di non avere riconoscenza verso il club che lo ha fatto diventare grande con uno stipendio da top quando ancora top non lo era e pagando lautamente anche il fratello, finito oggi al Padova, per il ruolo di terzo portiere (un milione netto per 4 anni). Andare via facendo incassare qualcosa al club non sarebbe stato più giusto? Uscire con un ladro dalla porta di servizio non ha qualificato solo l'uomo ma anche il professionista. Decide Mino, dunque. E forse stavolta non è di certo la cosa migliore del mondo.
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