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Rispettiamo il silenzio. Il "caso" Ilicic e il tabù della salute mentale

La storia di Josip Ilicic è un'opportunità per tutti noi per parlare di depressione e di salute mentale. E non solo. 

«Josip, Mola mia». Con il celebre motto bergamasco, sentito a più riprese nel momento più buio della pandemia, i tifosi dell'Atalanta hanno voluto esprimere solidarietà al loro giocatore più talentuoso, di nuovo al centro dell'attenzione e non per le sue magie in campo.

Di Josip Ilicic aveva parlato il suo allenatore, Giampiero Gasperini, al termine dello 0-0 contro la Lazio, ammettendo la delicatezza di una situazione imprevedibile persino per i medici: «la nostra testa è una giungla, non è facile per gli psicologi, figurarsi per noi», ha detto ai microfoni di Sky Sport.

Non è detto se lo sloveno potrà restare un punto fermo della rosa dell'Atalanta, e nemmeno se e quando tornerà a giocare: quando dice «lo aspetteremo tutta la vita», Gasperini ammette che quando in gioco c'è la psiche non è possibile fare previsioni.

Grazie a Ilicic abbiamo scoperto il peso dell'imponderabile  

Una situazione analoga era capitata nel 2020, quando il giocatore non riuscì a essere disponibile per giocare i quarti di finale di Champions League, cui l'Atalanta era arrivata grazie ai suoi 4 gol negli ottavi. Che fosse un problema legato a sindromi depressive era abbastanza chiaro, anche se troppe sono state le ipotesi fatte a sproposito da tifosi e commentatori. Tra problemi famigliari, attacchi di panico e timore per il virus, l'unica cosa che possiamo ricostruire con buona certezza è il passato burrascoso della famiglia Ilicic, sommerso tra le macerie della ex Jugoslavia: Josip nacque in Bosnia, da un padre ucciso nel 1989, perché croato in una città a maggioranza serba; grazie alla madre, visse come profugo in Slovenia per motivi di guerra, e lì ha lentamente ricostruito la sua vita fino a diventare simbolo della nazionale slovena.

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Bosnia, Serbia e Croazia, Slovenia: ci sarebbe abbastanza per un documentario storico sui conflitti balcanici degli anni Novanta. Il punto, però, è che nemmeno questo spiega i problemi del giocatore. In un mondo in cui pretendiamo di sapere ogni retroscena (dai discorsi in spogliatoio ai giorni necessari per guarire da un infortunio), abbiamo scoperto che non tutto si può sapere. Che per ricostruire quella "giungla", lavorano psicologi e psichiatri, non giornalisti e tifosi. La salute mentale chiama in causa processi, a volte lunghi anni: e così, abituati a voler dare una spiegazione a tutto, abbiamo scoperto il peso dell'imponderabile.

Anche se ancora certi tabù persistono, sappiamo che dentro gli "infortuni" di un atleta ci possono essere anche quelli dettati dalla mente; vanno trattati in maniera diversa, ma accettati come si accettano gli stiramenti. E bisogna riconoscere che la vita di un atleta non è solo fatta di soldi, divertimento e allenamenti: il professionismo richiede sforzi fisici, ma altrettanto si deve dire per la forza mentale che serve per affrontare sacrifici, rinunce, pressione e polemiche costanti.

La copertina del Time con Naomi Osaka

 Gli altri esempi, tra Naomi Osaka e Simon Biles 

I professionisti sono persone fortunatissime, certo, ma che sin da adolescenti non possono vivere la vita che tutti i giovani dovrebbero vivere: non hanno quell'insieme di relazioni, esperienze (e, sì, anche svaghi) che permettono di maturare e divenire adulti nel mondo. Visti come macchine perfette e idoli dei tifosi, gli sportivi sono persone umane, uomini e donne con le difficoltà che tutti possono attraversare.

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Naomi Osaka, tennista giapponese che l'anno scorso aveva dovuto rinunciare al Roland Garros, lo scorso luglio aveva lanciato un messaggio rivoluzionario proprio per la sua umanità: «It's O.K. to not be O.K.» recitava la copertina del «Time», giornale che ospitava l'intervista in cui la campionessa metteva a nudo sé stessa e le sue difficoltà. È ok non essere ok, come ha mostrato al mondo l'olimpiade della campionessa Simon Biles, costretta al ritiro in diverse gare della ginnastica a causa di blocchi mentali che le facevano perdere il senso dell'orientamento. Persino nella lega professionistica più famosa al mondo, l'NBA, il tabù della salute mentale era stato rotto dall'all star Kevin Love, che aveva confessato il nemico invisibile che gli causava continui attacchi di panico.

Esempi che hanno avuto grande risonanza, anche se si tratta ancora di casi isolati, qualche volta oggetto di ironia da parte di qualcuno.

Tornato al centro delle cronache, il caso Ilicic ci ricorda che la privacy va sempre rispettata, persino nel mondo della televisione e dei social; insegna che, se possiamo prevedere i tempi di guarigione di un muscolo, di fronte alla salute mentale non è possibile trovare cause certe né prevedere tempi di recupero. Dal momento che si tratta di persone umane, anche una vita costellata di successi sportivi può essere piena di errori, problemi, sconfitte.

Ossessionati dal successo a tutti i costi, dimentichiamo i lati oscuri delle nostre vite. Con rispetto, e senza conoscere il suo punto di vista, ogni appassionato di sport dovrebbe guardare all'attaccante sloveno come a un esempio: di sport, di umanità.

Forza Josip, It's O.K. to not be O.K.

Andrea Sciretti 

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