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Serie A. Tra giudizi severi e margini di miglioramento

 La Serie A è davvero così inferiore alle altre leghe? La vittoria dell'Italia agli Europei è davvero ritenuta una casualità, indipendente dalla qualità del campionato? Non è raro imbattersi in giudizi fin troppo severi sul massimo campionato italiano. Riassumiamo, eviscerandole, le principali critiche alla serie A, così da distinguere l'ipocondria dagli effettivi margini di miglioramento.

È un punto di partenza, e non di approdo, per talenti e grandi giocatori

Questa affermazione è sufficiente a ridimensionare il prestigio del nostro campionato?

Godere di ottima reputazione per la cura maniacale della fase difensiva e della tattica – al punto che alcuni giocatori scelgono la serie A per crescere in questi aspetti (si pensi a De Ligt) – non sembra un deficit, ma una specifica peculiarità. Il massimo campionato italiano costituisce un'ottima palestra per sviluppare la disciplina e l'intelligenza tattica, la capacità di lettura delle partite, ma anche la componente mentale e caratteriale dei giocatori, data la pressione mediatica. In tal senso, si tratta di una competizione estremamente selettiva, dove non tutti riescono a confermarsi o ad ambientarsi. Per arricchire e completare la propria carriera, molti atleti passano dalla consacrazione in serie A. Il fatto che i talenti poi emigrino è riconducibile a più fattori: motivi personali, desiderio di nuove esperienze sportive, offerte di ingaggio maggiori, appeal esercitato da altre squadre o campionati stranieri. Questo accade in ogni campionato, non solo in quello italiano (si pensi ad Haaland, pronto a lasciare il Dortmund). C'è poi un'altra considerazione che indebolisce questa insinuazione. Talvolta, serpeggia una critica diametralmente opposta: l'Italia è un punto di arrivo per giocatori ormai a fine carriera. Ronaldinho, Beckham, CR7 sono arrivati nella penisola ormai più che trentenni. Ciò è sufficiente ad assimilare la serie A alla Major League Soccer americana? La risposta è implicita. Giovani o maturi, l'importante è che i campioni arrivino.

 La spesa è minore

 Un detto popolare recita poca spesa, tanta resa. La quantità della spesa implica la qualità della medesima? Spendere tanto implica spendere bene? Questa relazione causale non è necessaria.

I club sono aziende. Dal punto di vista economico e finanziario devono essere amministrati con diligenza, con attenzione ai bilanci ma nell'ottica della crescita sportiva. In Italia ci sono realtà calcistiche in grado di allestire rose competitive, cercando profili poco conosciuti – ergo economici, almeno relativamente – nelle altre leghe, puntando su giovani promettenti, e "rigenerando" giocatori finiti ai margini o sottovalutati altrove. Si pensi alle politiche di Atalanta e Sassuolo su tutte, ma anche alla Lazio, all'Hellas, all'Empoli o all'Udinese. I suddetti club sono in grado di realizzare plusvalenze importanti, attraverso il ricambio e la sostituzione di profili affermati e pronti al grande salto – che vengono ceduti per cifre onerose – con nuove scommesse e talenti low cost. Società simili investono molto nella divisione osservatori e Scout e vantano vivai di prima fascia. Anche questo aspetto non sembra costituire un deficit. Ricollegandosi al primo punto, in ottica aziendale, è preferibile scoprire o ripristinare i talenti per poi cederli a peso d'oro, mantenendo invariato il livello di competitività. La minore spesa, poi, è riconducibile e rapportabile anche al minore indotto dell'industria calcistica italiana rispetto alle altre.

Alcuni giocatori scelgono la serie A per crescere nella fase difensiva (si pensi a De Ligt)

 Troppe partite

È davvero un problema? Se sì, riguarda solo la serie A? Si considerino gli altri campionati maggiori. Solo la Bundesliga ha meno squadre. In Inghilterra hanno addirittura più impegni e competizioni: si pensi alle lamentele di Guardiola, Klopp e Conte. Eppure, il calcio britannico è considerato ufficialmente e ufficiosamente il più pregiato. L'abbondanza di partite, oltre a garantire maggiori introiti ed equilibrio tra i club, garantisce maggiore spazio e visibilità anche ai più giovani. Con ciò, non si vuole tracciare un'apologia dei molti impegni, anche perché talvolta sono molto ravvicinati e incidono dal punto di vista infortunistico sulle rose. Il regolamento vigente che disciplina nelle competizioni internazionali la distanza minima tra due eventi sportivi dello stesso club, fissa la soglia invalicabile a 48 ore. Onestamente, si gioca tanto. Ma anche in questo caso, la serie A non è il campionato peggiore, per tornare al quesito iniziale. L'eccesso di partite risulta più ostico per le società che per i tifosi. Un appassionato vedrebbe quante più partite possibili.

 Poco allenante

A cosa si fa riferimento? Al ritmo di gioco blando e compassato? All'intensità intermittente? Gestire le partite è sinonimo di declassare? Alcuni additano l'eccesso di tatticismo. In Italia si lavora molto sulla preparazione scacchistica delle partite. Non è raro vedere trequartisti o centravanti sacrificati in marcatura sui registi avversari, o terzini bloccati. Sporcare e offuscare le trame di gioco avversarie può ridimensionare lo spettacolo ma è senza dubbio legittimo e strategicamente rilevante. Le energie spese nel pressing vengono distratte dalla fase creativa. Si considerino anche le verticalizzazioni immediate, le ripartenze o i contropiedi: richiedono preparazione e abilità, velocità e precisione. Si può forse dire che non siano spettacolari? Tutt'altro. Il campionato italiano è interessante perché offre diversi sistemi di gioco. Che dire degli allenatori giochisti di ultima generazione, come De Zerbi (emigrato a Donetsk), Italiano o Dionisi? Che dire di Gasperini, Juric, Andreazzoli o Tudor, che sfoggiano squadre arrembanti, dinamiche e caratterizzate dallo strapotere fisico e agonistico? La serie A ha sfornato e continua a sfornare allenatori vincenti, in grado di imporsi anche all'estero. Questo è, a tutti gli effetti, un riconoscimento per il lavoro svolto ma anche per l'intero calcio italiano.

La crescita del gioco di Gasperini ha conquistato l'Europa

 Scarsa competitività

In base a quali indicatori? Eppure, sono arrivati e continuano ad arrivare investitori importanti: si pensi alle nuove proprietà americane di Genoa, Spezia, Parma e Fiorentina. È difficile credere che imprenditori così affermati scelgano la serie A per sperperare asset e patrimoni. Inoltre, a livello sportivo, il campionato appare molto combattuto. Nella prima metà della classifica troviamo numerosi club agguerriti e di prestigio, a differenza degli altri campionati principali (esclusa forse la Premier League). Negli ultimi anni il dominio della Juventus era stato considerato il simbolo di una competitività ridimensionata, ma cosa si dovrebbe dire allora della Bundesliga monopolizzata dal Bayern? Inoltre, le ultime due apparizioni italiane in finale di UCL sono riconducibili proprio a quel periodo. I trionfi bianconeri non cancellano le stagioni spettacolari e combattute che avevano visto la Roma o il Napoli di Sarri contendere fino alle ultime giornate il titolo ai campioni in carica.

Il cerchio dei club in grado di aspirare alla vittoria dello scudetto, oggi, si è perfino allargato visto il rientro in corsa delle milanesi e la stabilità acquisita dall'Atalanta del Gasp. Finora si è considerata la competitività interna al campionato. In Europa, i margini di crescita sono maggiori. L'Atalanta, ad esempio, ha acquisito una dimensione europea, nonostante la precoce e rocambolesca eliminazione di quest'anno, dimostrando di poter vincere e dominare contro i club più prestigiosi del mondo. La UCL, però, è un torneo a sé. Quest'anno sono usciti club blasonati come il Barcellona e il Dortmund. Qualcosa in più si potrebbe fare nella cadetteria europea. È giusto riconoscere che alcuni allenatori italiani, negli ultimi anni, hanno colpevolmente snobbato l'Europa League preferendo concentrare le energie sulla serie A (pur senza vincere alcunché). Simili episodi di egoismo sportivo declassano l'intero movimento calcistico italiano e inficiano il Ranking.

 Il livello è inferiore rispetto a quello degli altri campionati

Si possono evidenziare già due errori: la vaghezza di questa affermazione rispetto ai parametri di valutazione, che non sono specificati, e la disinformazione rispetto ai dati, che forse non sono dogmi, ma che dovrebbero essere sempre considerati e confrontati prima di esprimere giudizi netti. In cosa la serie A sarebbe inferiore? Dal punto di vista atletico e agonistico? Dal punto di vista delle marcature realizzate? Dal punto di vista tecnico-estetico? O dal punto di vista dei successi internazionali? In primis, l'audience e la pressione mediatica dimostrano che il livello non è affatto basso. Per realizzare una graduatoria comparata si dovrebbe suddividere per aspetti, cosa che invece non avviene. Un campionato può essere migliore di un altro relativamente ad uno o più aspetti. Ma qualcuno sarà sempre migliore, da qualche punto di vista. L'Italia non è il peggiore dei principali campionati. C'è pur sempre un Ranking internazionale a confermarlo. Riconoscere ciò non equivale a negare i margini di miglioramento individuali e collettivi.

La nazionale italiana di calcio

 

Margini di miglioramento

È chiaro: dubbi legittimi rimangono. Il movimento calcistico italiano, da alcuni punti di vista, è effettivamente rimasto arretrato. In primo luogo, per quanto riguarda l'ammodernamento degli stadi e degli impianti sportivi e per la gestione del merchandising. In parte, la responsabilità è ascrivibile alle leggi, ai vincoli e ai farraginosi meccanismi burocratici. In parte, invece, è attribuibile alle strategie e alle possibilità d'investimento dei club. Rispetto alle strutture avanguardistiche inglesi, tedesche e (in alcuni casi) spagnole c'è un dislivello impressionante. Questo è tanto più evidente nelle serie minori. Un altro problema riguarda la redistribuzione iniqua dei diritti tv tra club, perché la revisione della legge Melandri non ha apportato drastici miglioramenti nella spartizione delle quote. Ad oggi è impensabile che i club trainanti il movimento, anche in termini di appeal, siano disposti a rinunciare ad ulteriori introiti, in favore delle squadre e delle serie minori (anche a causa delle ingenti perdite economiche riconducibili alla pandemia). Altri margini di miglioramento, poi, riguardano lo sviluppo del calcio femminile e quello delle seconde squadre, nonostante il buon esempio fornito dalla Juventus. La crescita di questi settori produrrebbe benefici globali per il movimento calcistico italiano. Anche in questo caso, è la crisi pandemica ad aver rallentato progetti simili. Era difficile (e lo sarà ancora per qualche anno, di questo passo) distrarre risorse dal chore business per sviluppare queste possibilità sportive. C'è infine il discorso relativo ai giocatori stranieri che, secondo Gravina, sono proporzionalmente in eccesso. È difficile dire se questo sia un problema cardinale e prioritario, anche perché difficilmente si raggiungono risultati applicando restrizioni e vincoli a priori a fenomeni spontanei, che riguardano l'intero movimento calcistico. Un movimento che dovrà saper vincere le sfide del presente e quelle del futuro. 

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