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Il calcio dei calciatori, delle emozioni e della "polvere di stelle". Intervista a Roberto Beccantini

Giocate, gesti, idee, non per forza gol. Emozioni. Quelle che solo il calcio sa dare. Ne abbiamo parlato con la storica firma del giornalismo italiano Roberto Beccantini. 

Dribbling, tiri, assist, calci di punizione. Ma anche parate, colpi di testa, stop, lanci. I trascurati: corsa e contrasto. Poi gli eversivi: colpi di tacco e rovesciate. L'ultimo libro di Roberto Beccantini, "Giocati da Dio – I gesti immortali del calcio" edito da Hoepli, mette insieme tutto questo, tutte le giocate possibili, anzi: le più belle. Da Sivori a Zoff, passando per Riva, Totti, Modric, Platini, Maradona. "Non ho stilato classifiche – scrive l'autore nell'introduzione – ho raccolto mementi, episodi, storie nascoste dietro una rovesciata, un dribbling, uno stop". Il frutto di una vita, tra La Stampa, Tuttosport, La Gazzetta dello Sport, Il Fatto Quotidiano, Guerin Sportivo, da giornalista. Un mestiere "che poi mestiere non è. È stata, è e sempre sarà passione".

Ce la siamo fatta raccontare, questa passione "fatta per mestiere". Ed è stato bellissimo.

Roberto Beccantini, storica firma del giornalismo italiano, autore di "Giocati da Dio - i gesti immortali del calcio"

Quanto ci si mette a scrivere un libro così e da dove nasce l'idea?

Ma in realtà non ci si mette troppo, un annetto. Ho riaperto l'archivio, riletto le vecchie carte. Ho pensato a questo libro come un lenzuolo per evadere dal tactically correct. Un lenzuolo non sempre o per forza di seta, ma anche di stoffa dura, resistente. Volevo ridare ai giocatori il vantaggio, la centralità, il palcoscenico. Ridare al calcio l'erba, il fango, la strada, l'oratorio. La polvere. La polvere di stelle che diventa polvere da sparo per sparare, e spararci, verso il sogno.

Maradona che "nacque in una specie di mangiatoia alla periferia di Buenos Aires", l'oratorio da cui partirono Riva, Tardelli, Boninsegna. Al nostro calcio manca questa dimensione?

Sì, manca la strada, lo spazio autentico. Manca la parrocchia, io sono nato nel 1950, a Bologna, e i primi calci li ho tirati alla parrocchia San Cristoforo. Un campo da 7, in cui si giocava a 11. Sotto lo sguardo del prete e sotto la sua sottana, dove spesso finivano i palloni calciati male. Dietro le porte le mamme, le nonne e spesso qualche osservatore. Oggi diremmo qualche pedofilo, invece era qualche dirigente, l'anello di congiuntura tra il calcio di parrocchia e il calcio dei club, delle squadre. Ora tutto questo non c'è più.

Nel libro racconta tante giocate, dieci per ogni capitolo. Ma qual è quella che l'ha emozionata di più?

Come gesto dico senza dubbio il tunnel di Omar Sivori, la prima forma di dribbling che arrivava al mio occhio. Come gol quelli di Maradona, su azione quello all'Inghilterra, giugno 1986, da fermo quello alla Juventus, novembre 1985.

La sua specialità era il tunnel, cioè la palla accompagnata con un ringhio dell'anima fra le gambe dell'avversario. Il massimo della scostumatezza stilistica. In quell'Italia lì, democristiana, bigotta e laboriosa, dal boom non meno facile del whisky di Buscaglione e ambigua sin dal titolo del telequiz che ne avrebbe scortato la movida serale, Lascia o Raddoppia?, c'era proprio bisogno di un mattocchio geniale come Omar.

Roberto Beccantini, "Giocati da Dio" 
La storica punizione di Maradona contro la Juventus

Ha un debole per gli argentini?

Io sono innamorato dei numeri 10. Sivori è stato il primo amore, poi Maradona. Ovviamente Puskas. Di Stefano, anche se era un 9, Cruijff anche se era un 14. Dirà: comodo. Ma sono quei calciatori che con una giocata possono infiammare, emozionare, stravolgere. Mi emoziona anche Dybala, con la sua faccia da chierichetto, con il suo fisico esile, ma ha un sinistro che è la polvere di cui parlavamo prima. Da sparo e di stelle.

Ho letto questo libro come se fosse un'enciclopedia. Sul tavolo, composto, matita alla mano, taccuino a destra, cellulare con YouTube aperto sulla sinistra, per rivedermi i gesti, i gol, le giocate che ha descritto.

Oggi ci sono infatti strumenti grandiosi. Che servono soprattutto a scovare gli errori. Il mio lascito potrebbe essere ribattuto. Un nipote potrebbe dire: "ehi nonno, guarda che non è andata così. Ti faccio vedere". Attenti però: il futuro non per forza è un posto migliore. È un posto diverso.

Il gioco. Le giocate. Da una tribuna, da una curva, da un divano. La magia dell'attimo che può cambiarti l'umore. Il fanciullino che è in noi svegliato da un arcobaleno, da una traiettoria, da una rabona. Per vedere che effetto fa. E l'effetto che lascia.

Roberto Beccantini, "Giocati da Dio" 
Trapattoni insieme a Platini

Nel libro non ci sono capitoli dedicati agli allenatori, "non già perché poco li consideri – scrive – ma perché ci sono cose e ci sono attimi che, per fortuna, sfuggono al dominio delle nozioni". Se dovesse fare una classifica, però, chi sceglierebbe?

Prendo Giovanni Trapattoni, con il quale ho condiviso il periodo di Tuttosport, lui alla Juventus, io in redazione. Uno della scuola italianista, accusato sempre di semplicismo, di non aver inventato nulla. Ma a lui arriva Tardelli terzino e lo trasforma mezzala, per dire. Poi Arrigo Sacchi, uno che, per dirla come il grande Lodovico Maradei non ha rivoluzionato il calcio, ma lo ha "evoluzionato". Infine, oggi, Pep Guardiola, anche se mi attrae il casino organizzato di Jurgen Klopp, che secondo me è una versione di quello che faceva qui da noi Eugenio Fascetti con il Verona, con il Torino, con la Lazio. Adesso però c'è anche Gian Piero Gasperini, tra i pochi allenatori ad aver portato punti alle proprie squadre. Un allenatore che ha studiato, che mette in campo un calcio organizzato ma con una buona dose di talento. Quello che prima era del Papu Gomez, poi di Josip Ilicic e oggi Charles De Ketelaere. Anche se oggi abbiamo dato troppo potere agli allenatori. E abbiamo degli statistici che vengono trattati come statisti.

Ecco di nuovo un gioco di parole, come tanti ce ne sono nel libro. Ma come fa?

Bisogna amare le parole, amarle di un amore quasi carnale. Questo lo devo al grande collega Gian Paolo Ormezzano, uno che faceva l'amore come scriveva e scriveva come faceva l'amore. Le faccio un esempio: 15 agosto 1971, finale dei 1500 metri piani agli Europei di Helsinki. Ormezzano titola: "Oro o mai più". E oro fu. Bisogna amare la parola fino in profondità. Ma attenzione: c'è un confine labile tra paroliere e parolaio. E il rischio di cadere dall'altra parte è alto.

Gian Paolo Ormezzano

Cosa la emoziona del calcio di oggi? O meglio: c'è qualcosa che la emoziona ancora?

Sì: la partita, che è il regno del possibile. Per il resto, sono nemico del calciomercato, onnipresente e troppo lungo, è il Viagra dei tifosi.

Cosa deve fare, secondo lei, un buon giornalista?

Deve leggere, leggere di tutto e non solo di sport e di calcio. E poi scrivere, scrivere, scrivere. Certo, come diceva un altro grandissimo, Gianni Mura, bisogna avere anche un piano B. Io fui fortunato, non ebbi bisogno di un piano B. Oggi è più difficile per certi aspetti, ma la qualità, il talento, la classe pagano sempre. 


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