Dietro l'impresa del Verona campione d'Italia nel 1985 c'è la semplicità e la complessità di Osvaldo Bagnoli, raccontate da Giulio Giusti nel suo ultimo libro.
Letta l'ultima pagina dell'ultimo libro di Giulio Giusti, "Il terzino faccia il terzino – vita e opere di Osvaldo "Schopenhauer" Bagnoli, edito da UltraSport, mi ronza in testa un pensiero fisso: in fondo il calcio è veramente qualcosa di semplice.
Basta fare le cose giuste, mettere ognuno al suo posto, costruire, avere le idee chiare. È un pensiero facile, banale, semplice appunto, eppure mi tormenta. Forse perché questa lettura arriva in un momento calcistico personale in cui di semplice non c'è proprio nulla: la mia Roma annaspa nei bassifondi della classifica, ha cambiato quattro allenatori in un anno, ha speso oltre 100 milioni per ritrovarsi a +5 dalla zona salvezza. Ci voleva Claudio Ranieri a riportare un po' di semplicità. Quella semplicità di cui Osvaldo Bagnoli è sempre stato accusato. Quella semplicità con cui Osvaldo Bagnoli ha saputo vincere. Quella semplicità di cui Osvaldo Bagnoli è tra i più grandi, se non il più grande, esempio.
Per lo scultore rumeno Constantin Brancusi, "la semplicità è una complessità risolta". E così era quella dell'allenatore milanese, classe 1935. Mezzala e mediano, ma anche libero, infine tecnico. Prima alla Solbiatese, in Serie C, poi al Como, da vice dell'amico Giuseppe Marchioro. Infine Rimini, Fano, Cesena, prima del grande approdo al Verona, e degli ultimi impegni col Genoa e con l'Inter. Una parabola sportiva e umana che Giulio Giusti ricostruisce con precisione e cura dei dettagli, intervistando e chiedendo ai tanti che hanno incrociato per una partita, una stagione, una carriera intera il tecnico milanese, raccontando non solo l'evoluzione di Bagnoli ma anche fotografando tutto il contesto calcistico del calcio italiano di quei tempi. Nomi, personaggi, carriere che sembrano, e forse lo sono, lontanissime nel tempo, ma che trasmettono ancora il sapore e l'odore di un calcio ormai scomparso.

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Campione d'Italia nel 1990, una Coppa Uefa con Maradona, poi la malattia, la solitudine e infine la morte. La storia del portiere di Napoli e Verona rivive oggi grazie al libro "Giuliano Giuliani, più solo di un portiere" di Paolo Tomaselli. Lo abbiamo intervistato.
Un calcio in cui l'allenatore si metteva a tavolino con il dirigente, sceglieva i calciatori e costruiva la squadra. Parte da qui il segreto del Verona campione d'Italia nel 1984-85, un campionato in cui giocavano Maradona e Platini, Rummenigge e Scirea. Bagnoli non aveva bisogno di nomi a effetto, di colpi per scaldare la piazza. Aveva la sua idea, semplice, che Giulio Giusti racconta e ribadisce bene nel corso del libro: ognuno al suo posto, "'l terzin fa 'l terzin, 'l median fa 'l median". Per spiegare tutto questo l'autore del libro ricorre a una metafora gastronomica: "Si potrebbe pensare alla crostata. Un dolce semplice, fatto con pochi ingredienti e di veloce preparazione. […] La bravura di chi la prepara starà quindi nello scegliere i giusti alimenti e amalgamarli bene insieme. Bagnoli era un bravo cuoco. Il suo calcio partiva dalla scelta degli alimenti giusti: i giocatori. Non partiva dagli schemi per poi arrivare agli uomini. Prima del calciatore sceglieva l'uomo". Un bravo cuoco, un bravo sculture, un bravo artigiano. Un filosofo, secondo Gianni Brera. Un allenatore in grado di trovare sempre "il bandolo della matassa", durante una partita o durante una stagione. Un uomo capace di motivare, di ascoltare, di far sbocciare talenti. Un uomo che ai proclami, ai titoli, alle urla, preferiva il silenzio o giusto una manciata di parole, ma ben pesate.

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"Il calcio è un gioco semplice – diceva Bagnoli – non sono indispensabili astruserie come la zona o il pressing. L'importante è avere la fortuna di trovare gli uomini giusti per metterli poi nei posti giusti". Altro che data analyst, algoritmi, mental coach. Altro che tiki taka, costruzione dal basso, risultatisti. Le cose semplici. Come semplice fu la scelta di lasciare il calcio, nel 1994, dopo l'esonero con l'Inter, proprio quando il calcio iniziava a mostrare quei cambiamenti che sarebbero stati irreversibili. E che già erano insopportabili per uno come lui. Uno troppo libero, troppo semplice, troppo corretto, troppo umile, troppo leale, come sottolinea Gianni Mura nella bellissima prefazione. Uno diverso.
Il libro di Giulio Giusti, uscito per la prima volta nel 2000, per Roberto Meiattini editore, ha il merito di far riscoprire una diversità di cui il calcio di oggi avrebbe ancora bisogno. Così come della semplicità. La semplicità che, per dirla alla Marchioro, ti fa comprendere che "per fare le grandi cose, sono necessarie le piccole cose". Il problema è che ormai ce lo siamo dimenticati.
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