In occasione dei 100 anni dalla nascita di Italo Calvino, pubblichiamo l'articolo che lo scrittore scrisse su L'Unità per Italia Inghilterra, nel 1948. Titolo: "Una partita che non ho visto".
La prima partita di calcio dopo la Liberazione, in Italia, venne giocata a Torino. Era il 16 maggio del 1948, contro gli azzurri scendevano in campo i "maestri" dell'Inghilterra. Si gioca al Comunale, alle ore 17.00. E i biglietti vanno esauriti in un lampo. 50 mila spettatori sugli spalti, anche se altre fonti parlano di addirittura 80 mila. Tra questi non c'è Italo Calvino, che scriverà comunque di quella partita.
Inviato dalla redazione de L'Unità, lo scrittore ha 25 anni e ha da poco pubblicato il suo primo romanzo, "Il sentiero dei nidi di ragno". Sulle colonne del quotidiano scriveva di tutto, anche di sport. Di ciclismo, con le vittorie di Bartali e il tentativo di appropriarsene da parte del Vaticano. Di calcio, di nuovo, come quando nel 1952 è a Mosca, a seguire la partita tra Ze-De-Sa e Kalinin, finale di Coppa dell'Unione Sovietica.
Quel giorno di maggio del Dopoguerra, però, Calvino decide di non entrare allo stadio e titola il suo pezzo con un inconfondibile "Una partita che non ho visto". "Certo anch'io avrei potuto comprare un biglietto all'ultimo momento, quando gli sfortunati bagarini facevano di tutto per dar via sottocosto le loro rimanenze, ma ho preferito gustarmi l'atmosfera di festa per le strade, assaporare questa domenica torinese tanto diversa dalle altre".
Una cronaca unica, fatta di bancarelle e strade gremite, di tifosi in fila, di marciapiedi pieni, di strade brulicanti. Neanche un accenno al risultato finale, che sarà di 4 a 0 per gli inglesi, reti di Mortensen, Lawton e doppietta di Finney. È l'Italia di Pozzo, con Bacigalupo in porta e Parola, quello della rovesciata, in mezzo al campo.
Gli unici calciatori citati da Calvino sono nel finale: "Dopo un'ora dalla fine della partita sapevo già tanto che ero anch'io in mezzo agli altri che discutevo: «Ma Mazzola… Ma Eliani…»". A ragionare nel dettaglio sulla partita, nella stessa pagina dell'autore sanremese e dello storico Paolo Spriano, che riflette sulle proteste operaie e la repressione di Bava Beccaris nel 1898, è un articolo dal titolo "Abbasso il divismo", a firma Martin. Il focus è sulla superiorità tecnica e fisica degli inglesi: "La forza, la velocità, quell'essere duri, impenetrabili come una porta di bronzo, i calciatori inglesi l'hanno acquistati in anni di duri allenamenti. […] Alla sera, quando i nostri si fanno notare nelle sale da ballo e nei tabarini per le sgargianti giacche sportive, per i calzettini multicolori, e per le donnette eleganti che hanno in compagnia, se ne vanno a dormire. Fumano poco, non bevono molto. I loro dirigenti non si riuniscono molto spesso come i nostri per discutere di cose fasulle come i nostri".
Calvino invece non entra nel merito, si permette solo qualche battuta sul risultato ("Poi il sole ha vinto. L'Italia, no, purtroppo. Su tutte le vie correva ansiosa la voce di Carosio") prima di lasciarsi trasportare dal clima ("Quell'arbitro! Lo maledicemmo anche noi di fuori, stringendo i pugni"). Una cronaca sportiva su una partita che non è stata vista. Solo Calvino, forse, poteva essere capace di un esperimento simile. Un cambio di prospettiva, un'inversione, un gioco. Finito magari in un tavolino di un bar, a parlare della sconfitta, di gol, di parate. La giornata di un tifoso, prima di diventare scrutatore.
UNA PARTITA CHE NON HO VISTO
di Italo Calvino (L'Unità, 17 maggio 1948, p.3)
Io la partita l'ho vista di fuori. Certo anch'io avrei potuto comprare un biglietto all'ultimo momento, quando gli sfortunati bagarini facevano di tutto per dar via sottocosto le loro rimanenze, ma ho preferito gustarmi l'atmosfera di festa per le strade, assaporare questa domenica torinese tanto diversa dalle altre.
Torino ha smesso la sua aria flemmatica di capitale settecentesca ed ha dimostrato che sa ancora essere una metropoli. Metropoli per un giorno: strano destino. Forse era il senso della provvisorietà di questo viavai che rendeva i torinesi i meno allegri in mezzo alla generale area di festa: il sapere che lunedì i corsi sarebbero tornati enormi e vuoti, i selciati delle vie interminabili e deserti, i bar avrebbero calato le saracinesche a mezzanotte dietro le spalle dell'ultimo cliente.
Ma sabato notte in via Roma nessuno pensava ad andare a dormire, e tutti si conoscevano e i marciapiedi erano stipati come di domenica mattina quando la gente elegante esce dalla Messa di San Carlo. Ed era gente venuta da tutta Italia, giovanotti dall'aria bulla con cappellone alla messicana.
Non potevo dormire, sabato notte, e dalla finestra aperta mi arrivavano i rumori della città, della gente senza letto accampata sui marciapiedi e i tavolini dei caffè, e gli strilloni che annunciavano l'uscita dei giornali, uno dopo l'altro.
Domenica non si sapeva cosa guardare: il cielo che un po' prometteva burrasca e un po' sereno, le macchine forestiere che un po' alzavano le cabriolet un po' l'abbassavano scoprendo vestiti vivaci e bionde chiome all'aria, gli auto pullman vuoti che giravano come fossero in vacanza.
Poi il sole ha vinto. L'Italia, no, purtroppo. Su tutte le vie correva ansiosa la voce di Carosio, anche quelli che volevano far gli indifferenti finivano per fermarsi ai crocchi ad ogni bar. "È in rete! È entrata! L'Italia ha segnato!". Macché: quell'arbitro! Lo maledicemmo anche noi di fuori, stringendo i pugni.
Certo, la sera fu più triste, veder partire gli auto, i pullman, e sentire tutti quei commenti, quelle recriminazioni. Dopo un'ora dalla fine della partita sapevo già tanto che ero anch'io in mezzo agli altri che discutevo: "Ma Mazzola… Ma Eliani…".
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