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Palloni Smarriti #4. Il Professore

Questa settimana Giulio Giusti ci porta in Sud America, con il Penarol e il Professor Alberto Mele. Siamo alla quarta uscita di Palloni Smarriti.  

Il professor Alberto Mele si presentava al campo per ultimo quando noi ci eravamo già cambiati e stavamo per iniziare a giocare. Nessuno osava richiamarlo per il ritardo, ne chiedergliene i motivi. Certe volte addirittura incominciavamo a giocare senza di lui e tenevamo duro fino al suo arrivo. Una volta aspettammo per un tempo intero non passando mai la metà campo e tenendo inchiodato il risultato sullo 0 a 0. Lo attendevamo come il salvatore e lui arrivò nell'intervallo in sella alla sua bicicletta con l'aria strampalata di chi sembra fuori luogo in ogni situazione. Nel secondo tempo accese la luce. Si piazzò in mezzo al campo e incominciò a dirigere il traffico, tutti i palloni passavano dai suoi piedi. La squadra guadagnò metri su metri sino a segnare due gol negli ultimi minuti grazie a due suoi passaggi illuminanti.

Giocavamo dei tornei amatoriali e da quando lo avevamo incontrato eravamo diventati imbattibili. Lo trovammo quasi per caso. Molti di noi erano studenti universitari iscritti ad Ingegneria e, per superare senza troppe ferite il durissimo biennio, ci era stato consigliato da alcuni amici di prendere ripetizioni dal professor Mele. Un'età indecifrabile, gli potevi dare quaranta come sessant'anni, magro quasi da sembrare malato, gli occhi intelligenti ma tristi, quasi staccati dal corpo e rivolti a guardare un orizzonte dove da tempo era tramontato il sole. I capelli erano tirati indietro con la brillantina. Sembrava una figurina di un calciatore degli anni '50 e, infatti, il padre di uno di noi, nostalgico del calcio passato, disse che gli ricordava Schiaffino. Da quella volta, decidemmo di chiamare la nostra squadra "La Celeste" in onore della nazionale uruguayana di cui Schiaffino era il leader. Quando lo seppe si commosse e tempo dopo avremmo capito il perché.

Il professore era un genio matematico. Non insegnava in nessuna scuola o università, si manteneva, Dio solo sa come, dando ripetizioni.Non chiedeva soldi, diceva che per tre cose non si deve avere un tariffario: fare l'amore, curare un malato e dispensare cultura. L'offerta per le sue prestazioni era a libera scelta degli allievi. C'era chi se ne approfittava, chi lo pagava con vino, pasta e salumi e chi lasciava somme generose. Scoprimmo le sue doti calcistiche durante una pausa delle lezioni. Eravamo a casa mia e aveva dato a me e ad un mio amico un esercizio da risolvere.

Ci disse "vi do dieci minuti" e poi, con il garbo d'altri tempi che lo contraddistingueva, chiese a mia madre il permesso per andare in giardino. Si diresse, come in trance, verso un pallone. Alzò la sfera con la suola della scarpa, se la lanciò sopra la testa e iniziò a palleggiare. Per dieci minuti la palla non vide più la terra. Testa, spalla, destro, sinistro, tacco, la faceva ballare con ogni parte del corpo. Abbandonò la tristezza che l'accompagnava enon sembrava l'uomo imbranato che conoscevamo. Noi, stupefatti da tanta classe, lasciammo il foglio in bianco. Eravamo a metà anni '80, gli anni di Maradona e Zico, e il professore come questi assi possedeva piedi sudamericani. Gli offrimmo con timidezza di entrare nella nostra squadra e lui prima che finissimo di formulare la domanda già aveva accettato. Come i grandi campioni non chiese dove giocare, fu la sua classe ad imporre la posizione. Era un regista classico, giocava in mezzo al campo dispensando assist e segnando gol di rara bellezza con precise fucilate da fuori area; i suoi tiri erano sentenze per i portieri avversari. Si rifiutava solo di calciare i rigori. Per i nostri livelli era un dolcissimo lusso, un giocatore fuori categoria. Sul campo sembrava un'altra persona, acquistava sicurezza e il suo sguardo era fiero e deciso. La tentazione di chiedergli dove avesse giocato da ragazzo era forte, ma il professore non parlava mai del suo passato. Sapevamo che si era materializzato venti anni prima in città dal nulla e su di lui circolavano i soliti pettegolezzi di provincia. Alcuni raccontavano che era un genio scappato da un'università russa e aveva cambiato identità, altri dicevano la banale storia della fuga da una delusione amorosa, qualcuno, infine, raccontava che era un agente segreto sotto copertura.

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In ricordo di Jurgen Grabowski - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo

Era già scoccato il novantesimo e Nando Martellini stava per commentare col suo stile british l'ingresso dell'Italia in finale dopo trentadue anni. Come ogni bravo telecronista, e lui lo era, stava preparandosi ad annunciare quell'evento epocale. In quegli ultimi minuti, avrà pensato a cosa stava riservando la sorte a lui che, partito da Roma al secondo posto nelle gerarchie della Rai, si era poi ritrovato a Città del Messico prima voce dopo la defezione forzata di Niccolò Carosio

 Il calcio, comunque, non ci sembrava un argomento troppo delicato e così dopo la finale di un torneo universitario vinto da "La Celeste" con un gol capolavoro del Professore, quello che tra di noi aveva la faccia più tosta gli domandò: "Professore, ci tolga una curiosità: dove ha imparato a giocare così bene?"

Eravamo negli spogliatoi bagnati di sudore, reso ancora più appiccicoso da un terribile spumantino comprato per l'occasione, parente più di una gassosa che di un Ferrari. Chi era in mutande, chi con l'asciugamano che cingeva il girovita. Il professore troneggiava come un eroe in mezzo alla stanza con la sua magrezza vestita da un accappatoio rappezzato simile ad un impermeabile. Per un attimo il suo viso fu attraversato da un sorriso e i suoi occhi guardarono in alto e poi scesero sui nostri. Il chiasso per il successo si era chetato e tutti eravamo intorno a lui, che si sedette su una panca e ci fece cenno di accomodarci. La lezione aveva inizio. Pensavamo di aprire un abbaino sulla sua vita, invece buttammo giù un muro. "Montevideo, 15 aprile del 1955 - incominciò a raccontare il professore- Penarol e Juventud si giocano lo scudetto. Sono una giovane promessa della Juventud di Barraquia, la mia piccola città, e mi sto affacciando alle porte della nazionale. Quel vostro genitore ha visto giusto, sono uruguayano, o meglio italo-uruguaiano, i miei erano andati in sudamerica per cercare fortuna e un po' la trovarono visto che potevo permettermi di studiare. Sono iscritto alla facoltà di matematica. Gioco e studio. Studio e gioco la partita della vita contro la squadra del mio cuore il Penarol. Sono affetto da "manya", così si chiama ancora oggi in Uruguay l'amore cieco per il Penarol. Nella formazione della capitale giocanodue campioni che nel 1950 vinsero il titolo mondiale in Brasile: il portiere Maspoli e il Capitano. Il Capitano è Obdulio Varela, l'eroe del Maracanà, il mio idolo, l'uomo che dopo mio padre è la stella cometa della mia vita. Mi tremano le gambe ancor prima di entrare in campo. Inoltre, alla vigilia della gara Mendez, il nostro capitano, si è fratturato un piede. Negli spogliatoi l'allenatore, il vecchio Costanzo Palmerino un quintale e venti di saggezza e bontà che mi ha scoperto e cresciuto come un figlio, mi chiama davanti a tutti e dice: ragazzi, Alberto prende la fascia è lui il nostro capitano. L'emozione mi brucia cuore e cervello. Io capitano a soli vent'anni! Io che devo stringere la mano e scambiare il gagliardetto con Varela! Pochi minuti e mi trovo al centro campo di fronte al Capitano. Varela mi fissa negli occhi. Il suo sguardo mi entra nell'anima e mi succhia il coraggio. Inoltre,mi stringe la mano e non la molla per dieci eterni secondi. 

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Cagliari – 12 aprile 2020 - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo

Lo Stadio Amsicora di Cagliari parla nel giorno del cinquantenario dello scudetto, è un giorno particolare: è il 12 aprile 2020 e siamo in pieno lockdown.

Non esisto più. Cammino come un fantasma per il campo per i primi dieci minuti, vengo svegliato solo dall'urlo del pubblico. L'arbitro ci ha assegnato un rigore. Non capisco perché tutti mi guardano. Dalla panchina parte un urlo "Alberto, vamos!" è Costanzo Palmerino. Lo guardo perplesso, poi per un attimo torno in me: sono il rigorista. Vado verso il dischetto e incrocio nuovamente gli occhi di Varela, che capisce la mia paura e mi sussurra in un orecchio:"ti serve una man, ragazzo". Come se non bastasse mi trovo davanti Maspoli, il miglior portiere del nostro Paese, una gloria nazionale. Sono un grande rigorista, freddo, spiazzo sempre il portiere e adagio la palla dalla parte opposta a quella dove lui ha pensato di tuffarsi. Sento sui miei piedi i sogni delle diecimila anime che vivono a Barraquia. Li vedo riuniti nei bar o a casa di chi possiede una radio. Prendo la rincorsa e, per la prima e unica volta in vita mia, tiro il rigore di potenza. Una cannonata che si alza di almeno un metro sopra la porta di Maspoli. Non oso pensare ai bar di Barraquia. Guardo Palmerino che ha adagiato tristemente i suoi 120 chili in panchina sapendo che ha perso l'ultimo treno della sua carriera. Accusiamo il colpo, negli ultimi 5 minuti del primo tempo il Penarol ci trafigge due volte. Nell'intervallo vengo giustamente sostituito. Finirà 4 a 0 per loro. Finirà peggio per me. Il giorno dopo apprendo dai giornali che la Juvendud mi ha ceduto al Penarol. I tifosi pensano che mi sono venduto, i compagni pure, Palmerino, che sa la verità, accarezzandomi mi dice di correre a Montevideo. Io sono distrutto dalla vergogna e smetto di giocare. Finisco gli studi in matematica e inizio a insegnare. In Uruguay è un inferno, vengo ricordato in due soli modi: senza palle o venduto. Scappo in Italia e mi rifugio da qualche parente. Poi inizio a vagare, cambio una città all'anno, cercando di campare con l'unica cosa che so fare oltre a giocare a pallone: insegnare matematica. Poi arrivo qui e mi trovo bene, il resto lo conoscete".

Tra di noi la gioia per la vittoria è già evaporata. Di colpo, quasi in coro gli chiediamo:

"Perché non ha continuato, perché non è andato al Penarol?"

Il professore abbassa la testa e poi, ritrovando un po' d'orgoglio, la rialza e sentenzia: "Chi distrugge i sogni altrui non merita di cullare i propri".

Palloni Smarriti #5. Da Dirac a Roberto Dinamite
Palloni Smarriti #3. Hristo e Mimì
 

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