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Palloni Smarriti #2. L'ultima panchina

Seconda uscita della rubrica "Palloni Smarriti" di Giulio Giusti. Oggi c'è un racconto che mette Gallipoli e Champions League nella stessa frase.

Provò una sensazione strana Girolamo Seclì quando mise piede sul prato verde del mitico Santiago Bernabeu di Madrid. Una sensazione che era come una tenaglia che gli strizzava l'intestino.Per anni aveva sognato quel tempio e mai si sarebbe immaginato che il suo poco nobile posteriore, dopo aver conosciuto il duro legno di centinaia e centinaia di panchine sui campi polverosi del campionato dilettanti, era in procinto di accomodarsi sulla sontuosa panchina riservata agli ospiti del Real. Si stavano per giocare i quarti di finale della Champions League tra lo squadrone spagnolo ed il Gallipoli, che da poche stagioni era salito ai vertici del calcio nazionale ed internazionale grazie ai pesantissimi investimenti di Michael Connor, un magnate americano che tutti gli anni andava in vacanza nella località salentina e lì si era innamorato dell'Italia e del calcio.

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Quel giorno a Cagliari, quando se ne andò Giuliano Taccola - Il Catenaccio - Web Magazine Sportivo

Era il campionato 1968/69, sulla panchina della Roma c'era Helenio Herrara, in campo invece c'era Giuliano Taccola. O meglio, sarebbe dovuto esserci. 

Alla vigilia di quella sfida, il Gallipoli aveva esonerato l'allenatore, ritenuto non all'altezza della ribalta mondiale, perché gli era capitata l'occasione di tesserare il mitico Otto Ruffel, l'uomo che conosceva la Champions League come il bidè di casa sua. Il santone tedesco, però, era ancora colpito da una lunga squalifica internazionale e necessitava di un prestanome per dirigere la squadra. Così, in fretta e furia fu scelto Girolamo che ebbe la fortuna di essere da sempre nelle grazie di Connor. Il tecnico, infatti, era nativo proprio di Gallipoli ed apparteneva ad una famiglia di pescatori. Conosceva il miliardario americano sin da bambino, da quando il padre lo mandava a portare il pesce fresco nella villa dove alloggiava Connor.

Gli accordi erano chiari: Otto Ruffel avrebbe dato gli ordini via telefonino e Girolamo gli avrebbe diramati ai giocatori senza cambiarli di una virgola.

Il compito era di una facilità disarmante, eppure quella sensazione che l'aveva preso all'entrata in campo era sempre più invadente. Vedeva le squadre disposte al centro del rettangolo di gioco e quelli del Real non gli sembravano avversari. Potevano essere rivali per un Mourinho o un Guardiola,per lui erano solo miti. I suoi avversari erano sempre stati il Nardò, il Tricase, il Fasano od il terribile Putignano, sul cui campo non aveva mai vinto.

Anche l'arbitro gli era apparso bellissimo, non come quelli, quasi sempre sovrappeso, a cui era abituato. L'urlo del pubblico, poi, era terrificante. Per non parlare dell'esagerazione di bandiere, gli sembrava di essere a Lecce alla festa di Santo Oronzo. Iniziò ad avere paura. Una paura infantile. Un disagio insopportabile. Non era quella la sua festa. La sensazione era sempre più strana. Al fischio d'inizio da indecifrabile divenne chiarissima: si stava cagando addosso! La gioia più grande della sua vita si stava trasformando in un dramma. Doveva andare il prima possibile al bagno. Ma come avrebbe fatto? Non poteva certo abbandonare la panchina. Iniziò intanto a squillare il telefonino. Ruffel non dava ordini, emetteva sentenze. Ogni trillo era un calcio all'intestino. Ogni azione del Real gli faceva rimpiangere sempre di più i derby col Putignano.

Erano passati solo venti minuti, ma per lui era come un intero girone d'andata. Ormai non rispondeva più nemmeno al cellulare. Ruffel in tribuna sembrava un rottweiler in calore da trent'anni.

Girolamo decise che l'unica cosa da fare era uscire di scena ed il miglior modo possibile era quello di farsi espellere.

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Un insulto all'arbitro ed il gioco era fatto. Alla prima opportunità avrebbe messo in pratica il suo stratagemma. Capitò dopo poco. Un'azione dubbia nell'area del Real. Girolamo si alzò in piedi ed urlò all'arbitro, l'inglese Taylor, un chiarissimo: "ladro". Non contento,ribadì il concetto anche in inglese: "ladro, sei un ladro!" Il direttore di gara si avvicinò di corsa alla panchina pronto ad estrarre il cartellino rosso. Girolamo provò a ripetere l'offesa per essere certo di essere espulso, ma questa volta fu il suo posteriore a parlare con una terribile e maleodorante scoreggia premonitrice di una sontuosa cagata.L'arbitro gli scoppiò a ridere in faccia e il suo riso fu arrestato solo da Girolamo che recuperato il coraggio gli ringhiò sul muso: "Ladro, che aspetti a buttarmi fuori? Mi cacci o no, stronzo?"

Il direttore di gara questa volta udì benissimo e non poté esimersi dall'espellerlo.

Girolamo Seclì accettò l'espulsione come una liberazione, strinse e baciò la mano all'arbitro ed iniziò, col sorriso sulle labbra e nello stupore generale, una folle corsa a braccia alzate verso gli spogliatoi. I motivi dell'espulsione furono spiegati immediatamente dai bordocampisti e il pubblico, venuto a conoscenza dei fatti, iniziò ad acclamarlo e ad esultare come non faceva dai tempi di Gento e Di Stefano. A quel punto, Girolamo si fermò. Mancavano pochi passi al tunnel che conduceva alla sua salvezza: i cessi del Santiago Bernabeu. Vide e sentì i centomila dello stadio che applaudivano solo lui. La sosta fu fatale. Forse il crepacuore per l'emozione, il suo intestino che non poteva più aspettare o la terribile vergogna.

Girolamo Seclì si accasciò al suolo e non si rialzò mai più.

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