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Intervista a Mauro Bencivenga, il tecnico che scoprì De Rossi

Mister, quando c'è stata la scintilla? In che momento ha capito che De Rossi sarebbe diventato un grande giocatore?

Non c'è stato un momento preciso. Daniele è sempre andato per gradi, con miglioramenti graduali. Tra gli allievi e la primavera non giocava. Perché, guarda che non era un fuoriclasse eh. Io mi sforzavo a capire il ruolo che gli dovevo dare: giocava in attacco ma non andava bene, esterno neanche, allora lo inventai centrocampista. Quando giocavo in Serie B e in Serie C mi piaceva tantissimo il mediano basso, pensavo di metterlo in pratica quando sarei diventato allenatore.

Da qui nasce l'idea del cambio di ruolo?

L'ho portato davanti alla difesa, noi giocavamo con il 3-5-2, volevo un vertice basso, che giocasse soprattutto in orizzontale, a formare un triangolo con gli altri due centrali, di destra e di sinistra, sia per far partire il gioco che per aiutare la retroguardia. Dopo il cambio di ruolo, ha iniziato a giocare sempre meglio.

Lo spirito da leader si vedeva già?

No, secondo me no. È nato dopo, quando è diventato mediano è diventato leader. Come è successo a me, quando ero centrale difensivo e, dovendo guidare la linea, divenni leader. E poi come in tutte le cose la vita ti modella col tempo, ti riempie, ti fa crescere. E guarda come è cresciuto. Ha fatto una carriera incredibile: campione del mondo, tutti quei gol in nazionali. Se ripenso agli allenamenti fatti con me, le risate, le parole…

Che tipo di rapporto c'era con il giovane De Rossi?

Gliene dicevo di tutti i colori, mi arrabbiavo tantissimo. Lo facevo con tutti ma con lui di più, me lo potevo permettere, perché ero amico con Alberto, che allenava le categorie dei più piccoli. Un giorno gli dissi delle cose bruttissime. Così, anni dopo, ci ripensai e mi venne l'istinto di mandargli un messaggio: "Daniè, io ti chiedo scusa, ho ripensato a quello che ti avevo detto quel giorno al campo…". E lui mi ha risposto: "A mister, ma che stai a scherzà?! Se non era per lei io manco all'Ostia Mare potevo giocà..". Daniele era un tipo gioviale, gli dicevo le peggio cose e non se la prendeva mai, stava sempre col sorriso.

Lo stesso sorriso che abbiamo visto anche durante la conferenza d'addio a Trigoria. Che impressione le ha fatto?

L'ho vista insieme a mia figlia e, sarà che sto invecchiando, non riuscivo a trattenere le lacrime. Ho avuto un flash: tutta la mia storia con lui, i tre anni insieme. Ad un certo punto non ce la facevo più. Lui è stato di una freddezza unica, bravissimo nella comunicazione, era glaciale. Era bello, ma mi ha messo anche paura: io, al posto suo, sarei crollato.

E il mister Mauro Bencivenga, che allenatore era?

Io volevo che tutti i miei ragazzi primeggiassero, senza distinzioni. Mi fermavo tre, quattro ore dopo gli allenamenti, con il buio, quando andava via anche Bruno Conti. Io dicevo sempre a tutti i miei giovani: "Sogno di venire all'Olimpico, un giorno, mettermi seduto e vedere davanti a me uno di voi". E questo sogno con De Rossi si è avverato. E con lui Blasi, De Vezze, Ferri, Bovo, anche chi ha fatto la Serie B, Sansovini, Martinetti. Il fine settimana, davanti a La Domenica Sportiva a guardare i miei ragazzi ero come un bambino con il lecca lecca in mano davanti ai cartoni animati. Furono 12 anni di Roma, intensi, bellissimi.

Poi Fabio Capello la vuole collaboratore tecnico, nel 1999, per la Roma dei grandi.

I giocatori di prima squadra mi guardavano con occhi diversi, dicevano "Guarda Mauro, che persona calma, non parla quasi mai". Da allenatore invece lanciavo certi strilli che un giorno Mazzone mi mandò a chiamare, per farmi abbassare la voce. Sono stato sempre un vulcano. I giocatori allora non ci credevano, e De Rossi gli diceva: "Voi non avete conosciuto il vero Mauro Bencivenga". C'era Leandro Cufrè che mi guardava con gli occhi sbarrati, D'Agostino gli aveva messo paura su di me. Mi piaceva lavorare sul campo, mettere i cinesini, preparare l'allenamento. Un giorno andavo al campo con la sacca dei palloni dietro la schiena, passa Daniele e mi fa: "Mister glieli posso porta' io sti palloni?".

Che rapporto aveva con Don Fabio?

Io parlavo sempre bene dei giovani cresciuti nel vivaio, e allora Capello mi sfotteva sempre: "Sono bravi solo i tuoi eh". Così un giovedì, Capello arriva, con quel suo sorriso sornione, e mi fa: "Domenica ti faccio esordire da titolare il tuo cavallo". Era il 10 maggio 2003, quando esordì anche Aquilani.

E adesso, dopo una vita alla Roma, il numero 16 non smetterà di giocare. Che consiglio si sente di dare a De Rossi?

Ci ho parlato, un po' di tempo fa, e lui mi diceva: "Mister, voglio giocare un altro anno". Allora gli ho risposto: "Se lo fai, devi farlo con dignità, se stai bene fisicamente. Sapendo di dover triplicare il lavoro". Erano le stesse cose che mi diceva Mario Facco, mio allenatore a Frosinone, giocatore della Lazio di Maestrelli. Io ero pigro nella parte atletica e allora il mister mi diceva: "Mauro, sei vecchio, quindi devi lavorare di più". Le stesse cose che ho detto a De Rossi.

Lo vede più allenatore o più dirigente?

Te lo dico con sincerità, non ho nessuna certezza. Certo a sentirlo parlare l'altro giorno, così bello, così freddo, me lo sono immaginato dirigente. Ma anche da allenatore lo vedo bene, ha giocato tutta la carriera in un ruolo di comando, di controllo, che aiuta alla panchina. Di certo ha il carattere per fare l'allenatore, perché quando si fissa un obiettivo lo raggiunge. 


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